Il risultato delle recenti elezioni in Georgia e del referendum in Moldavia relativo agli adempimenti necessari per procedere nel cammino verso l’adesione all’UE (passato con una maggioranza risicatissima) sono un campanello di allarme che l’Unione europea non può ignorare.
La pressione di Mosca su entrambi i Paesi è forte e priva di scrupoli: include la manipolazione dell’opinione pubblica attraverso campagne di disinformazione, il forte sostegno alle forze anti-UE, incluso il tentativo di falsare i risultati elettorali tramite brogli, come denunciato con forza in Georgia.
Il punto vero in questo quadro – che rischia di farsi molto fosco per i cittadini degli Stati che guardano con speranza all’UE – non è però solo l’aggressività e la determinazione di Putin, né il suo vantaggio di regime dispotico capace di sfruttare cinicamente la presenza di forti minoranze russe all’interno di questi Paesi e alimentare la polarizzazione; il problema ancora più cruciale è piuttosto la debolezza dell’Unione europea, che si manifesta sia nelle difficoltà che incontra nel sostegno all’Ucraina (che ha un valore enorme per tutti i Paesi appartenuti all’area sovietica), sia nelle modalità con cui gestisce il processo di allargamento, sia nella sua debolezza politica e nel suo declino economico.
I tempi lunghi e le modalità previste per l’adesione all’UE non aiutano certamente quella parte cospicua di opinione pubblica, sicuramente maggioritaria, ma anche in obiettiva difficoltà nell’attuale contesto, che si sente europea, che manifesta con forza la propria volontà, ma che rischia di essere messa all’angolo dalla contro-offensiva putiniana. La proposta della Comunità politica europea – che doveva affiancarsi al processo di preparazione normativa e costituzionale necessario per l’ingresso nell’UE e nel Mercato Unico dell’Ucraina, della Moldavia e della Georgia, insieme ai Balcani – è sostanzialmente stata dirottata verso una nuova forma di consesso diplomatico finalizzato al tema della sicurezza regionale, ma senza reali funzioni se non di dibattito e coordinamento minimo. Avrebbe dovuto essere il primo tassello di un’Europa strutturata su diversi livelli di integrazione. La Comunità politica doveva diventare il cerchio più esterno, finalizzato ad avviare l’integrazione politica, l’elaborazione di strategie comuni, la condivisione di interessi e priorità da perseguire insieme coerentemente, in vista dell’ingresso a pieno titolo nell’Unione europea. Questa visione presupponeva un’UE determinata a farsi unione politica federale, a sua volta strutturata su diversi livelli di integrazione per far convivere in sinergia gli Stati membri che al momento intendono limitarsi al livello del Mercato e dell’attuale acquis communautaire, e quelli che vogliono consolidarsi intorno ad una vera unione politica federale, dando così stabilità e forza all’intera costruzione multilivello europea.
Questo scatto dell’UE – preparato con la Conferenza sul futuro dell’Europa e con il lavoro del Parlamento europeo sulla riforma dei Trattati culminato con il voto del 22 novembre 2023 – non c’è stato. La richiesta del Parlamento europeo è ferma al Consiglio europeo, dove basterebbero 14 Stati su 27 per avviare la Convenzione e la discussione democratica sul futuro politico dell’UE. L’Unione europea resta così un partner debole, come dimostrano anche i suoi limiti nei confronti dell’Ucraina, e corroso al proprio interno da forze crescenti che criticano il modello democratico e sono favorevoli a Mosca. Questa è un’Unione, come denunciato dal Rapporto Draghi, in crisi riguardo al proprio futuro economico, tecnologico e industriale – e quindi rispetto alla sua capacità di preservare il proprio welfare state. È un’Europa che non ha forza politica sul piano internazionale e non ha strumenti per garantire la propria sicurezza, come certificato in un altro recentissimo Rapporto ufficiale della Commissione europea redatto dall’ex Presidente della Finlandia, Sauli Niinistö.
La debolezza e l’impotenza dei governi nazionali europei, che mantengono l’UE in questo stato di paralisi, arriva a mettere a rischio lo stesso processo di allargamento. Il costo è drammatico per tutti i cittadini europei, e soprattutto per tutti quelli che si sentono tali e vorrebbero poterlo diventare effettivamente. Questo è un monito che i fautori dello status quo europeo, nei governi, nella politica nazionale e nelle stesse istituzioni europee, non possono permettersi di ignorare. Su di loro pesa la responsabilità politica e morale del tradimento della speranza e del progetto per cui è nata l’Europa.