Da Infolampo: Reversibilità e Lavorare dopo 60 anni
Pedretti: «Sulla reversibilità non staremo a guardare»
Il segretario generale dello Spi torna alla carica contro il disegno di legge delega sulla povertà approdato alla commissione Lavoro della Camera. E delinea i contorni del futuro impegno della sua organizzazione: “Un sindacato che negozia e contratta”
di Guido Iocca
Il tema delle pensioni di reversibilità tiene banco da giorni. Il governo smentisce. I sindacati attaccano e chiedono un confronto urgente. “Una rapina legalizzata, perpetrata in particolare ai danni delle donne, che hanno una pensione mediamente inferiore a quella degli uomini e dunque in futuro rischiano di impoverirsi ulteriormente”. A dirlo è Ivan Pedretti, che si è insediato alla guida dello Spi Cgil il 3 febbraio e ha già iniziato a dare battaglia. È stato lui infatti a denunciare per primo il problema delle future pensioni di reversibilità: il disegno di legge delega sulla povertà che il governo ha da pochi giorni fatto approdare alla commissione Lavoro della Camera prevede la possibilità di rivedere le pensioni erogate agli eredi alla morte del pensionato o del lavoratore che abbia maturato i requisiti per l’assegno.
Rassegna Sulla reversibilità cosa pensa di fare ora lo Spi Cgil?
Il ddl ora in commissione stabilisce che le reversibilità siano considerate prestazioni assistenziali e non più previdenziali. Significa che l’accesso a questo tipo di pensione sarà legato da questo momento in avanti all’Isee, per il quale conta il reddito familiare e non quello individuale. Se il provvedimento dovesse passare, saranno tante le persone che non si vedranno più garantito tale sacrosanto diritto. La possibilità di mettere mano alle pensioni di reversibilità è semplicemente una follia. Mi auguro che il governo decida di fare marcia indietro in occasione della discussione che si aprirà a breve in commissione Lavoro. I margini per una seria modifica ci sono tutti, ma serve innanzitutto la volontà politica. Una cosa è certa: se non ci saranno riscontri positivi, non staremo certo fermi a guardare. Abbiamo chiesto un confronto con il governo. Speriamo arrivino presto delle risposte.
Rassegna Veniamo al tuo nuovo incarico. Quale contributo pensi di portare dalle tue precedenti esperienze di operaio metalmeccanico e di dirigente della Fiom alla guida dello Spi?
Pedretti Quello dei pensionati è un sindacato generale, come spesso lo definisco, non una semplice federazione, come quelle dei lavoratori dei diversi settori. Qui, dove arrivano gli ex di tutte le categorie, ti trovi a confrontarti con la dimensione della persona anziana, che è appunto una dimensione generale. Non devi fare il contratto, devi ragionare sul sistema sanitario, sull’assistenza sociale, sui servizi territoriali a cui puoi affidarti. Siamo un sindacato che si muove essenzialmente nella dimensione – vera e propria frontiera della confederalità – della contrattazione sociale. Perché se io faccio una lotta per superare le
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Lavorare a 60 anni e oltre
La riforma pensionistica ha avuto effetti sull’occupazione dopo i sessant’anni d’età. Per le donne, però, c’è anche il fattore ‘generazione’
di Carla Facchini
Come noto, in Italia il tasso di occupazione è inferiore a quello medio dei paesi europei. Tale divario si accentua per la popolazione femminile. Gli ultimi dati Eurostat rilevano, per il nostro paese, un tasso di occupazione totale (20-64 anni) pari al 69,7% per gli uomini e al 50,3% per le donne (fig. 1), contro una media europea (UE27) pari, rispettivamente, al 75,1% e al 63,5%, con uno scarto quindi di 5,4 punti percentuali per gli uomini, ma di 13,2 punti per le donne.
A fronte di questi dati è interessante analizzare come si sia modificato il tasso di occupazione delle classi di età più elevate e, in particolare, delle donne. A livello europeo, il tasso di occupazione dei 55-64enni, sebbene inferiore a quello medio della popolazione in età lavorativa, ha visto un consistente incremento sia per gli uomini (dal 51,5% al 59%), che per le donne (dal 33,5% al 45,4%). In Italia, tale incremento è stato più elevato che negli altri paesi, soprattutto per le donne, che hanno visto salire il loro tasso di occupazione dal 20,8% al 36,6% dal 2005 al 2014 (fig. 2).
Mutamenti dell’assetto normativo sul pensionamento…
Alla base dell’incremento del tasso di occupazione dei lavoratori più anziani vi sono soprattutto i provvedimenti legislativi che in tutti i paesi europei, anche se con tempi e modalità difformi, hanno posticipato l’età per accedere alla pensione. Per l’Italia, vi è il decreto legge 201 del 6 dicembre 2011 – la cosiddetta ‘riforma Fornero’-, che ha elevato a 67 anni l’età minima per il pensionamento, anche se con tempi differenziati per uomini e donne[1], e a seconda del settore lavorativo: il decreto, infatti, ha previsto tale innalzamento già dal 2012 per tutti gli uomini e per le donne occupate nel settore pubblico, mentre lo ha graduato nel tempo (dal 2012 al 2018) sia per gli autonomi che per le lavoratrici del settore privato.
Il trattamento più favorevole per le donne occupate nel settore privato ha però avuto un effetto contenuto sul divario d’età al pensionamento di uomini e donne. In primo luogo, le donne hanno una maggiore presenza nel settore pubblico, non toccato dallo ‘slittamento’[2]; in secondo luogo, gli uomini hanno una maggior presenza sia tra i lavoratori autonomi, sia tra le occupazioni ‘usuranti’ che vedono, comprensibilmente, condizioni pensionistiche più favorevoli. Inoltre, poiché le condizioni per la pensione anticipata – che sostituisce la pensione di anzianità, maturata sulla base del numero di anni di contribuzione – sono diventate molto più restrittive, il suo utilizzo è diventato più problematico proprio per la popolazione femminile, la cui occupazione è più frequentemente connotata da periodi di non occupazione o di part-time e, quindi, da contribuzioni meno sistematiche.
Se il mutamento normativo svolge indubbiamente un ruolo preponderante sull’aumento dell’occupazione dei lavoratori più anziani, su quello delle donne gioca anche un effetto ‘generazione’. Con ciò intendiamo riferirci ai mutamenti intervenuti negli scorsi decenni nei modelli culturali e identitari della popolazione femminile, causa ed effetto assieme del forte incremento dei livelli di scolarità specificamente femminili verificatosi dalla fine degli anni ‘60. Ma, dato che il possesso di diploma e di laurea comporta, per le donne, specie in Italia, una maggiore propensione a permanere nel mercato del lavoro anche dopo aver costituito un proprio nucleo familiare, tale maggiore scolarità si è riverberata sul tasso di occupazione femminile.
Diversi i fattori sottostanti tale relazione positiva. Anzitutto, le migliori retribuzioni di diplomate e laureate rispetto a chi ha solo una scolarità di base rendono più vantaggiosa la permanenza nel mercato del lavoro, anche a fronte degli impegni familiari di cura. In secondo luogo, gioca la possibilità di accedere a lavori meno gravosi e con orari meno pesanti che quindi agevolano la conciliazione[3]. Infine, il proseguire gli studi sottende un modello identitario delle donne scolarizzate in cui è implicita la permanenza nel mercato del lavoro anche da adulte. Il ruolo giocato dal livello di scolarità sull’occupazione femminile è ben evidenziato dai dati Multiscopo 2012 (fig. 3): per la classe di 55-64 anni, il tasso di ‘casalinghitudine’ è pari al 50% tra chi ha una bassa scolarità, al 40,6% tra chi ha un scolarità media, ma scende al 22% tra le diplomate e al 12,5% tra le laureate.
Ne consegue che alla base dell’attuale aumento dell’occupazione femminile tra le 55-64enni vi è anche l’incremento della scolarità degli anni ’60-’70, incremento che si è tradotto dapprima in un maggior tasso occupazionale delle donne 20-30enni, per tramutarsi, via via, in un incremento dei tassi di occupazione delle classi successive, fino ad arrivare, quarant’anni dopo, a toccare le sessantenni. Ed è proprio perché le attuali 55-64enni sono le stesse ‘ragazze’ protagoniste dei mutamenti negli anni ’60-’70, che possiamo
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