Da Infolampo: La busta arancione e la pensione come variabile indipendente
La “busta arancione” e la pensione come variabile
dipendente
di Morena Piccinini, Esperienze 22 aprile 2016 ore 12.44
Per incoraggiare una cultura previdenziale, 20 anni fa si era pensato di inviare periodiche
comunicazioni agli assicurati, con il fine di informarli sulla rivalutazione del montante individuale. Oggi
quell’idea, soprattutto per i giovani, non ha più senso
Ci sono momenti in cui ci si innamora talmente tanto di una idea da non vedere che è già stata superata
dalla realtà. È ciò che sembrerebbe stia accadendo all’Inps,
che – dopo tanti annunci e stop and go – sta provvedendo a
inviare la famosa “busta arancione” a oltre 7 milioni di
lavoratori, contenente una proiezione della futura pensione
di ognuno di loro. L’idea nasce da molto lontano. La prima
volta se ne parlò nell’ormai lontano 1995, quando il nostro
paese approvò l’ultima grande riforma delle pensioni,
realizzata con il consenso delle parti sociali. Bei tempi,
verrebbe da dire, perché la legge 335 innovò il sistema
pensionistico, ponendo delle basi solide che ora tutti
rimpiangiamo. Senza minare le basi solidaristiche e
universali, introdusse elementi di flessibilità in uscita che
lasciava una certa libertà di scelta individuale. Il calcolo
contributivo delle pensioni, che ha sostituito quello
retributivo, accompagnato dall’impegno di sviluppare la
previdenza complementare, per compensare l’eventuale
perdita del valore delle pensioni pubbliche, aveva posto in sicurezza i conti previdenziali nel nostro paese.
E proprio per incoraggiare una maggiore cultura previdenziale tra i lavoratori, era stato previsto di inviare
periodiche comunicazioni agli assicurati, affinché potessero essere ragguagliati sulla rivalutazione del
montante contributivo individuale su cui sarebbe stata calcolata la pensione. Un po’ alla maniera dei paesi
scandinavi.
Sono passati più di 20 anni e nel frattempo le cose sono profondamente cambiate. Il mercato del lavoro è
stato assalito da una crisi economica e finanziaria senza precedenti, tanto da indurre a più riprese il
Parlamento a scrivere leggi per delimitare sempre più i perimetri di ogni esercizio del diritto, dal lavoro al
welfare, fino a trasformare il pensionamento in una variabile dipendente “esclusivamente” dalle
dinamiche economiche. La legge Monti-Fornero è il risultato di questo lungo percorso travagliato, che ha
cancellato le speranze e ogni forma di fiducia nel futuro ai giovani e ai lavoratori maturi, rimasti
intrappolati tra disoccupazione e precarietà. Nel bilancio dello Stato, ancora oggi, complice il perdurare
della crisi, il capitolo pensioni continua a essere usato come un bancomat da cui prelevare sempre di più
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TTIP, quale impatto secondo le stime
In questi mesi, tra le critiche diffuse nell’opinione pubblica da una parte all’altra dell’Atlantico, si discute
il trattato di libero scambio fra Stati Uniti e Unione europea. Vediamo quali sarebbero le conseguenze
per le persone e per l’economia
Tempi duri per il libero scambio. L’Inghilterra voterà fra due mesi sulla proposta di uscita dall’Unione
europea. I candidati alla presidenza americana Donald Trump e Bernie Sanders hanno improntato la loro
campagna contro la firma dei trattati di commercio internazionale. Movimenti o partiti anti-trattati, o
anche anti-Ue, stanno guadagnando terreno all’interno della stessa Unione. Nel frattempo, Stati Uniti e
Ue sono impegnati nella negoziazione di importanti trattati di commercio. Il trattato di libero scambio fra
Stati Uniti e 11 paesi del Pacifico (Trans-Pacific Partnership, TPP), ormai giunto alle battute finali, e il
trattato di libero scambio fra Europa e Stati Uniti (Transatlantic Trade and Investment Partnership, TTIP).
Sono trattati, questi, che coinvolgono le due più grandi economie occidentali e che coprono il 40% del Pil
mondiale il primo (TPP), il 50% il secondo (TTIP). Oltre a questi, l’Ue ha negoziato un trattato con il
Canada (Comprehensive Economic Trade Agreement, CETA), mentre è in corso di negoziazione il Trade
in Services Agreement (TiSA), che coinvolge 50 paesi, fra cui l’Ue.
Questi trattati hanno sollevato proteste e aperta ostilità in una larga parte dell’opinione pubblica dalle due
parti dell’Atlantico. D’altra parte l’economia ortodossa ha da sempre sostenuto che i vantaggi di lungo
periodo del libero scambio superano i possibili costi di breve periodo in termini di distruzione di posti di
lavoro e lavoratori resi disoccupati dalla concorrenza delle importazioni a più basso costo. Vediamo allora
quali benefici economici e quali costi sociali possono derivare dal TTIP in termini di crescita,
distribuzione del reddito e qualità della crescita: occupazione, qualità del lavoro, qualità della vita[1].
Su cosa agisce il TTIP
Gli studi che hanno cercato di stimare gli effetti del trattato sul tasso di crescita del reddito sono giunti
alla conclusione che l’impatto è tutto sommato assai modesto (da 0,32 a 1,31 % del Pil nell’Ue nell’arco
di 10 anni). Come ha scritto il ministro svedese per gli affari europei, Birgitta Ohlsson, una politica volta
a garantire una maggiore eguaglianza di genere nel mercato del lavoro porterebbe a un aumento del Pil
europeo 24 volte maggiore delle stime più prudenti sui vantaggi economici del TTIP (il 12% contro lo
0,5%). E questo, senza violare principi democratici, norme ambientali, o protezione del consumatore[2].
Le ragioni di questo scarso impatto sono evidenti: le tariffe nel commercio Usa-Ue sono in media ormai
molto basse, e poco o nulla si ricava dalla loro eliminazione. Circa l’80% degli effetti economici dipende
infatti dalla riduzione o armonizzazione delle cosiddette barriere non tariffarie, cioè di quei regolamenti,
procedure amministrative e standards che rendono difficile la vendita dei prodotti Usa in Europa e
viceversa.
Ma è qui che sorgono i problemi. Infatti il trattato può agire solo sulle barriere non tariffarie dovute a
interventi di policy (per esempio, le diverse procedure di omologazione di un’automobile) e non anche
sulle assai più rilevanti barriere rappresentate dalla lingua, dalle preferenze culturali, dalle tradizioni[3].
Va inoltre tenuto conto che standard e regolamenti hanno un impatto sul benessere sociale (ad esempio
standard sanitari o ambientali in settori sensibili come alimentari e bevande, farmaci, chimica, cosmetici).
Le stime più favorevoli al trattato prevedono dunque una riduzione delle barriere non tariffarie nell’ordine
del 25-30%, ritenuta da molti perfino troppo elevata.
I modelli di stima
I principali studi empirici si basano su modelli di piena occupazione. In particolare, si assume che
l’introduzione del TTIP favorisca una maggiore concorrenza che causa, a sua volta, una riduzione dei
costi e dei prezzi e induce l’uscita delle imprese meno efficienti. Si liberano così risorse che vengono
automaticamente assorbite dalle imprese a maggiore produttività. La flessibilità dei prezzi assicura
l’equilibrio di tutti i mercati, incluso quello del lavoro. I lavoratori dei settori in concorrenza con le
importazioni che perdono il lavoro a causa del TTIP troverebbero dunque lavoro nei settori in
espansione, con costi trascurabili in termini di minori salari, minori entrate fiscali e maggiori spese
pubbliche per formazione e riqualificazione.
La realtà è ovviamente differente. A fronte dei vantaggi rappresentati dalla creazione del commercio ci
sono i costi di aggiustamento: i lavoratori licenziati dai settori perdenti devono essere riassorbiti nei
settori vincenti. La stima dei costi è assai diversa se si usano modelli che ipotizzano la tendenza
automatica al pieno impiego (che sono appunto quelli usati nella quasi totalità di questi studi), o se invece
ci si concentra sugli effetti “nella fase di aggiustamento”: ci potrebbero essere allora effetti negativi
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