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Da Infolampo: Mercato del lavoro – Caregiver familiari

lo_cerco_2309_800_800Mercato del lavoro, la svolta mancata

Costi alti, benefici marginali: la combinazione del Job Act e degli incentivi fiscali alle imprese nel 2015

ha portato centomila occupati in più a fronte degli ottocentomila posti perduti in otto anni di crisi.

Servono investimenti e un cambio di rotta

di Marco Sappino

Amara sorte quella dei cosiddetti gufi sui presunti fasti renziani. Prima subiscono bordate di espressioni

denigratorie o irridenti, manco fossero una quinta colonna di

sabotatori della resurrezione nazionale; e poi, quando tocca

purtroppo constatare che le peggiori previsioni si sono rivelate

fondate, non possono che raddoppiare i motivi di

preoccupazione perché non solo non è avvenuto il miracolo

promesso dal governo, sordo a ogni critica e strategia

alternativa, ma si sono persi molti mesi e gettate al vento

ingenti risorse.

Un’atmosfera, una consapevolezza simile dev’esserci in queste

ultime settimane in casa Cgil per gli eloquenti numeri

squadernati dagli uffici di Corso d’Italia che tengono

sott’osservazione fisco, finanza pubblica e mercato del lavoro,

tracciando il bilancio del Job Act e degli incentivi erogati alle

imprese nel 2015. Una spesa dello Stato pari a 6,1 miliardi di

euro, tirate le somme, ha prodotto centomila occupati in più (di

cui il 60 per cento a tempo determinato). Troppo poco rispetto

agli ottocentomila posti di lavoro dissolti da otto anni di crisi.

Un risultato «decisamente insoddisfacente», denuncia la Cgil, e

il segno di una «spaventosa inefficienza»: i provvedimenti della

legge di stabilità 2014 così magnificati dal governo

(decontribuzione totale fino a 8.000 euro per ogni nuovo assunto con contratto a tutele crescenti e

deduzione della quota lavoro a tempo indeterminato dall’imponibile Irap) non hanno inciso in maniera

significativa. La svolta, che il Paese attende e vuole costruire, non c’è stata. Senza dimenticare che queste

misure costeranno 8,3 miliardi di euro nel 2016 e 7,8 nel 2017 alla cassa statale.

Certo, nell’ultimo periodo, cifre e tabelle di varia fonte si sono alternate nelle slide di Palazzo Chigi e nei

media più o meno compiacenti offrendo un’altalena di messaggi, parzialmente ottimisti o parzialmente

catastrofici: dati Istat, registrazioni Inps, rilevazioni ministeriali, elaborazioni della Banca d’Italia e analisi

di centri studi. Tuttavia, come la si giri o la si rigiri, il senso del fallimento sembra assodato, e i sindacati

non hanno proprio nulla di cui rallegrarsi.

Rilancia la Cgil il suo Piano del Lavoro: stanziare dieci miliardi all’anno, con investimenti e assunzioni

dirette in determinati settori, porterebbe occupazione effettiva in un triennio di quasi 740.000 persone, tra

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Caregiver familiari, serve un vero riconoscimento

Tre i disegni di legge attualmente in discussione, cosa manca ancora per un pieno riconoscimento dei

caregiver familiari, vale a dire tutte quelle persone che prestano assistenza ad anziani e malati

all’interno delle famiglie

di Brunella Casalini

Il nostro è un welfare sprovvisto di misure relative a “cure a lungo termine”. Anziani fragili e malati

cronici possono contare su poco più di una misura monetaria costituita da un’indennità di

accompagnamento di entità modesta che mai copre totalmente le spese per l’assunzione di un assistente

familiare e non tiene conto né del reddito né del grado di non autosufficienza.

Negli ultimi anni in alcune regioni è stato introdotto un assegno di cura (legato all’Isee) erogato dai

comuni. Vari tentativi sono stati inoltre sperimentati per facilitare o rendere un po’ meno gravoso il lavoro

dei caregiver familiari impegnati nella ricerca di un aiuto. Basti pensare all’istituzione degli albi delle

badanti, a misure quali il numero verde della regione Toscana (il cosiddetto “Pronto badante”) e alla legge

regionale sul caregiver familiare, approvata dalla regione Emilia Romagna nel 2014 grazie alla

cittadinanza attiva dell’associazione Carer e della Cooperativa anziani, e non solo.

L’attivismo delle associazioni ha consentito di ottenere in poco tempo altri importanti risultati. Altre

regioni (almeno sei: Abruzzo, Campania, Lazio, Marche, Piemonte e Sardegna), infatti, hanno in

discussione analoghi provvedimenti legislativi. Il 17 settembre 2015 a Bruxelles la commissione petizioni

dell’Unione europea ha accolto le richieste di riconoscimento dei family caregivers italiani, inviando un

sollecito al governo del nostro paese. Il 24 settembre il presidente della repubblica ha voluto organizzare

al quirinale un incontro tra il consigliere di stato per gli affari giuridici e le relazioni costituzionali e il

coordinamento nazionale famiglie disabili. Le stesse associazioni delle famiglie disabili stanno

attivamente lavorando al fine di presentare all’Onu un ricorso sulla mancata applicazione in Italia –

nonostante la sua ratifica fin dal 2009 – della convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con

disabilità.

In questo clima di grande attivismo da parte dei caregiver familiari (che è destinato probabilmente a

ricevere un’ulteriore spinta dalla risoluzione approvata dal parlamento europeo il 29 aprile 2016 sulla base

del rapporto Kuneva relativo alla condizione dei lavoratori domestici e dei familiari che prestano cura

all’interno dell’Unione europea), tre diversi disegni di legge sono approdati tra la fine dell’anno scorso e

l’inizio di quest’anno alle camere[1]. In sede di esame del disegno di legge per la riforma del terzo settore,

dell’impresa sociale e per la disciplina del servizio civile universale, il 23 marzo il senato ha approvato

quasi all’unanimità un ordine del giorno che “impegna il Governo a valutare l’opportunità di adottare

disegni di legge recanti norme per il riconoscimento ed il sostegno del caregiver familiare”, dando un

segnale che qualcosa, forse, si stia effettivamente muovendo.

Nel 2012, proprio sulle pagine di inGenere scrivevo a proposito dell’importanza di una discussione

pubblica sul ruolo e la funzione svolta nel nostro sistema di welfare dalle famiglie, da tante madri, mogli,

compagne e figlie impegnate, talvolta per anni, nella cura dei loro cari non autonomi. Qui mi propongo di

tornare sulla questione per analizzare i punti salienti dei disegni di legge presentati alle camere. Se è

indubbio che essi rappresentino un piccolo passo avanti rispetto a una situazione di totale invisibilità del

lavoro e dei costi (in termini di opportunità, di salute e, non ultimo, in termini economici con un effetto di

ulteriore impoverimento delle generazioni più giovani[2]) sostenuti da tanti familiari che prestano cura,

pare tuttavia necessario sottolinearne gli elementi di problematicità e il rischio – che già altri hanno

segnalato – che queste proposte finiscano per essere solo “una pacca sulla spalla dei caregiver familiari” .

La strategia di supporto del caregiver familiare delineata dalle proposte legislative presentate alle camere

persegue i seguenti obiettivi: l’informazione utile all’espletamento delle numerose pratiche amministrative

necessarie per gestire la vita di una persona non-autosufficiente nei rapporti con i servizi sanitari, per

accedere a consulenze e contributi per l’adattamento dell’ambiente domestico, per svolgere il ruolo di

datore di lavoro nel caso di sopravvenuta necessità di assumere un assistente familiare, ecc.;

l’acquisizione di competenze di cura, alle quali si promette una qualche forma di riconoscimento

nell’ambito della formazione e/o ai fini dell’eventuale ingresso nel mondo del lavoro legato all’assistenza

alla persona; la conciliazione dello svolgimento dell’attività di assistenza con il lavoro o la facilitazione

del reinserimento lavorativo in caso di perdita del lavoro dovuta all’impegno di cura; l’introduzione di

misure di sgravio fiscale e di misure assicurative; interventi di sostegno psicologico (anche mediante

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