Da Infolampo: Madeinitaly in mani straniere – Dio odia le donne
Made in Italy in mani straniere
Qualcuno dice: è la globalizzazione. Tale sarebbe se a fronte del cambiar padrone e nazionalità di tanti
simboli italiani, ci fossero altrettante nostre espansioni all’estero. Ma sono proprio le poche eccezioni la
testimonianza di un disastroso passivo
di Giorgio Frasca Polara
Assai di recente si è qui riferito dell’intricata vicenda che ha portato – pronube Finmeccanica, con il
consenso di almeno tre governi di opposta natura – alla
conquista cino-turca (80% del capitale, il poco resto in
mano pubblica) della produzione esclusiva e della
commercializzazione dei bus per il trasporto locale
pubblico in Italia. Ma quanti simboli del “Made in Italy”
non parlano più italiano, nei più svariati settori? Il calcolo
non è facile, e oltre tutto non è materialmente possibile
tener conto di tutti i passaggi azionari, data la crescente
rapidità degli acquisti. Comunque proviamoci, alla grossa.
Un primo punto fermo risale esattamente a due anni
addietro, con il passaggio di mano della marchigiana
Indesit all’americana Whirlpool condito dall’avvio di una
lunga e non risolutiva vertenza sindacale. In pochi ne
avevano approfittato per ragionare sui due segnali di
quella che, un po’ improvvidamente, il presidente del
Consiglio aveva definito “un’operazione fantastica”. Primo
segnale: non era, quello della Indesit, un caso isolato ma
solo l’ultimo anello (per allora) di una lunga catena: sono più di cinquanta le grandi e notissime imprese
che in appena qualche anno sono state cedute a gruppi stranieri. Qualcuno ha detto: è la globalizzazione.
Niente affatto. Tale sarebbe se a fronte del cambiar padrone e nazionalità di tanti simboli italiani, ci fosse
un’altrettale espansione italiana all’estero. Ma se si tolgono pochi casi (i più significativi: la Luxottica di
Del Vecchio e l’espansione anche in Cina del gruppo Fabbri, quello dell’Amarena), sono proprio queste
eccezioni che fanno la regola di un disastroso passivo del Made in Italy.
Il secondo segnale fa coppia col primo: il capitalismo italiano è probabilmente al tramonto (basta la
vicenda western della Fiat a suggerirlo, o l’acquisto di Pirelli da parte dei cinesi che intanto fanno
shopping azionario in tutte le più importanti banche, assicurazioni, enti pubblici e privati), la allarmante
passività dei governi (anche di centrosinistra), l’assenza di segnali concreti di rilancio dell’economia,
dell’occupazione, e soprattutto di una strategia di sviluppo industriale. Così è accaduto con il Laminatoio
di Torino (sette vite operaie bruciate in un disastro per cui i responsabili non passeranno un solo giorno in
galera) e le Acciaierie di Terni divorate dal colosso tedesco ThyssenKrupp. E così un’altra potenza della
Germania come Volkswagen ha rastrellato l’una dopo l’altra le moto Ducati, il mito Lamborghini e la
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Campi anti-mafia, presentazione
del documentario Terre Rosse
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Dio odia le donne
Il nuovo libro della giornalista Giuliana Sgrena, Dio odia le donne (Il Saggiatore, pp. 208) rintraccia il
ruolo giocato dalle religioni monoteiste nel sistema di oppressione delle donne così radicato nelle diverse
culture del mondo
di Ingrid Colanicchia
Al sistema di violenza strutturale contro le donne così radicato nelle culture del mondo, le religioni hanno
dato nel corso dei secoli un vigoroso contributo. A partire, come rilevato dalla teologa femminista
Elizabeth A. Johnson, da quella consuetudine a parlare di Dio con un linguaggio – fatto anche di
immagini – “che descrive il potere maschile”.
Un contributo che, infelicemente, non si è esaurito nel tempo, rinnovandosi continuamente. Per questo
giunge assolutamente a proposito – e rischierebbe di farlo anche tra dieci, venti, trent’anni – il nuovo libro
della giornalista Giuliana Sgrena, Dio odia le donne (Il Saggiatore, pp. 208), incentrato sul ruolo giocato
dalle religioni monoteiste nel sistema di oppressione delle donne. Non un pamphlet, né una nuova esegesi
delle fonti – specifica fin dall’inizio l’autrice – ma “una ricerca personale, non facile ma per certi versi
liberatoria, sulle ragioni alla base dei comportamenti adottati o imposti dalle religioni monoteiste” in
materia.
A partire dai testi sacri – che Sgrena definisce strumenti di questa aggressione degli uomini contro le
donne – l’autrice passa in rassegna alcune questioni chiave, offrendo un quadro comparato di come i
patriarcati si siano fatti scudo delle religioni per tenere le donne sotto il giogo maschile. Dai codici di
abbigliamento alle mestruazioni, dalla verginità alla contraccezione, passando per le norme che regolano
l’eredità, l’autrice ci mostra come cristianesimo, ebraismo e islam seguano gli stessi principi di fondo nel
definire il rapporto uomo-donna.
Tutto – o quasi – passa attraverso il controllo della sessualità femminile. Ne è emblema la questione della
verginità, cui è dedicato un ampio capitolo. Ma se pensiamo che nel Talmud c’è scritto che “La voce della
donna è la sua nudità” – e l’autrice rivela che sulla questione le tre religioni monoteiste concordano – ben
comprendiamo come questo controllo abbia potuto estendersi a ogni ramo della vita delle donne,
giustificando tra le altre cose l’espropriazione della parola cui sono state sottoposte per secoli. Una
confisca che è ben esemplificata dall’impossibilità per le donne di celebrare la messa o di guidare la
preghiera in moschea.
Nel cristianesimo è l’apostolo Paolo a togliere il diritto di parola alle donne: “Come si fa in tutte le chiese
dei santi, le donne tacciano nelle assemblee, perché non è loro permesso di parlare; stiano sottomesse,
come dice anche la legge. Se vogliono imparare qualcosa, interroghino i loro mariti a casa; perché è
vergognoso per una donna parlare in assemblea”. Una riduzione al silenzio che, ricorda Sgrena, prosegue
tutt’oggi. Alla fase conclusiva del Sinodo sulla Famiglia (svoltosi in due tappe a Roma tra il 2014 e il
2015) la lista dei partecipanti prevedeva giusto una trentina di donne, di cui la maggior parte invitata
come metà di una coppia chiamata a parlare in quanto tale (e naturalmente senza alcun diritto di voto).
E altrettanto ardua è la strada delle donne all’imamato, nonostante il caso singolare delle Nu Ahong, le
prime donne imam, appartenenti all’etnia hui che costituisce circa la metà dei 20 milioni di musulmani
che vivono in Cina. Ma le Nu Ahong sono imam solo per donne, non possono guidare la preghiera
davanti a un pubblico misto o di uomini.
Caso diverso quello dell’ebraismo, ricorda Sgrena. Le varie correnti affrontano infatti la questione
dell’accesso al rabbinato in modo autonomo. Se l’ebraismo ortodosso è decisamente contrario, ci sono
invece rabbine nell’ebraismo riformato, in quello ricostruzionista, in quello conservatore…
La narrazione procede fluida, intessuta com’è di ricordi personali e aneddoti. Il volume si apre con un
flashback sull’infanzia dell’autrice costretta ogni mattina a sentire i suoi compagni delle scuole elementari
– pubbliche ma gestite dalle suore – pregare per lei perché figlia di un comunista. Mentre Sgrena ci rivela
di non aver pregato neppure nei giorni bui della prigionia in Iraq.
Dio odia le donne è infatti lo sguardo di una donna atea ma, “almeno nelle intenzioni, vuole essere uno
sguardo il più possibile neutrale”. E l’autrice non fa sconti a nessuno: “le affinità che abbiamo riscontrato
tra le religioni monoteiste rispetto alla demonizzazione dei mezzi di seduzione della donna – scrive
Sgrena – non devono indurre oggi a trascurare l’oppressione delle donne musulmane, ma neanche a non
riconoscere gli orrori commessi dalla propria religione o, in nome di una sorta di relativismo culturale, a
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