Da Infolampo: L’Europa può rinacere dal lavoro – Il Mondo rallenta ………
L’Europa può rinascere solo sul lavoro
Dopo la Brexit: “L’esito del referendum è la certificazione del fallimento delle politiche economiche e
sociali della Ue. Sono peggiorate le condizioni di vita e di lavoro, c’è più diseguaglianza e povertà. Se
non cambia rotta è destinata al fallimento”
“L’esito del referendum in Gran Bretagna è la certificazione del fallimento delle politiche economiche e
sociali dell’Europa, che – nel vivo della crisi che si
prolunga da ormai quasi un decennio – hanno prodotto il
peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro,
l’attacco al modello sociale europeo, l’aggravarsi del
debito pubblico nei paesi europei più in difficoltà, la
crescita delle diseguaglianze e della povertà, l’aumento
della disoccupazione (specie giovanile e femminile) a
livelli che mai l’Europa aveva conosciuto”. Così in una
nota la Cgil, dopo il voto che sancisce l’uscita della
Gran Bretagna dall’Unione europea, con la Brexit al
52%.
Secondo il sindacato di corso d’Italia: “Proseguire in
questa direzione porterebbe al definitivo divorzio tra i
cittadini e l ’Unione Europea. Le scelte che la
Commissione e i governi devono compiere sono chiare
e urgenti: cambiare i trattati e le politiche. E’ necessario
puntare sulla lotta alle diseguaglianze, sulle politiche
sociali, sul welfare, sugli investimenti pubblici per la
crescita, sull’occupazione stabile e di prospettiva legata
a istruzione avanzata e formazione di qualità, sulla
tutela dei diritti civili e del lavoro, sull’integrazione”.
“Anche per la Confederazione Europea dei Sindacati –
conclude la Cgil – siamo a un bivio: la Ces non può più
rinviare la scelta di rilanciare la dimensione sociale
dell’Europa, di pretendere il ritorno alla centralità del
lavoro e del suo valore nel contesto europeo, di insistere
sul cambiamento delle politiche economiche e sociali
sbagliate della Commissione europea, di chiedere la ripresa del progetto di integrazione europea
all’insegna dei valori della solidarietà e della condivisione e non della concorrenza tra i lavoratori e del
dumping sociale tra i diversi Stati
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Il mondo rallenta ma forse non è un male
Negli ultimi anni il ritmo della crescita mondiale è molto diminuito. Ha pesato la forte frenata del
commercio, dovuta soprattutto al nuovo corso cinese. Il problema dell’occupazione, che non è
necessariamente correlato alla crescita, dovrà essere affrontato con nuove soluzioni
di Attilio Pasetto
E’ ormai chiaro che, dopo la Grande Recessione, siamo entrati in una nuova fase dell’economia mondiale
caratterizzata da tassi di crescita più bassi, rallentamento del commercio mondiale, ridimensionamento
delle catene globali del valore, difficoltà negli accordi di liberalizzazione multilaterale degli scambi e
aumento delle tendenze protezionistiche. E’ il ritorno a una fase simile a quella che precedette la crisi del
2008-2014, denominata anche come la Grande Moderazione, o ci troviamo di fronte a quella che
Prometeia chiama la Grande Incertezza? Oppure ancora siamo finiti dentro l’incubo della cosiddetta
“stagnazione secolare” ?
Osserviamo il fenomeno prendendo come riferimento l’andamento degli scambi internazionali. Il
commercio mondiale, secondo le elaborazioni di Prometeia, è cresciuto a un tasso medio annuo dell’8,2%
nel decennio 1991-2000, poi sceso al 5,9% negli anni pre-crisi 2001-2007 e diminuito della metà al 2,9%
durante la crisi 2008-2014. Per il triennio 2015-2018 Prometeia prevede un ulteriore ridimensionamento
al 2,6%. Altri previsori sono un po’ più ottimisti, ma la sostanza non cambia: da cinque anni Pil e
commercio mondiali stanno crescendo allo stesso ritmo (basso), quindi con un’elasticità pari a uno, e
almeno per il prossimo anno dovrebbe ancora essere così. Prima della crisi gli scambi internazionali
crescevano a una velocità più che doppia rispetto al Pil, con un’elasticità pari a 2,3.
Ma da che cosa è dipesa la riduzione dell’elasticità del commercio mondiale al Pil? Una nota del Centro
Studi Confindustria (Emergenti, Cina in testa, guidano la frenata del commercio mondiale di C. Pensa e
M. Pignatti) ha calcolato che, rispetto alla media pre-crisi, nel periodo 2013-2015 la variazione
dell’elasticità dell’import mondiale al Pil è stata pari a -1,3 punti percentuali. Lo stesso studio ha
scomposto l’elasticità degli scambi mondiali al Pil in tre componenti: lo spostamento del baricentro delle
importazioni mondiali dai paesi avanzati ai paesi emergenti; la diversa crescita del Pil nelle tre principali
macroaree (avanzati, Cina e altri emergenti); la dinamica specifica dell’import in queste tre macroaree.
Dall’analisi econometrica emerge che i primi due fattori, che sostanzialmente rappresentano l’effetto di
ricomposizione del commercio e del Pil mondiali dovuto al maggior ruolo assunto dai paesi emergenti,
spiegano relativamente poco (rispettivamente -0,27 e -0,25 punti di elasticità). L’elemento determinante è
lo shock negativo avvenuto sulle importazioni non imputabile alla dinamica del Pil. Più in particolare
questo shock negativo (-0,79 punti in totale) è dovuto quasi per la metà alle minori importazioni della
Cina (-0,36), seguito dal minor import degli altri paesi emergenti (-0,29), mentre l’incidenza dei paesi
avanzati è modesta (-0,14). Da notare che l’ampiezza dello shock è correlata inversamente al peso di
ciascuna economia sulle importazioni mondiali: la Cina rappresenta infatti “solo” il 10,3% dell’import
mondiale, gli altri paesi emergenti il 26,9% e i paesi avanzati ben il 62,8%.
Queste evidenze mostrano quanto sia impressionante la forza della Cina e la sua capacità di condizionare,
nel bene e nel male, l’economia mondiale. E spiegano anche perché gli Stati Uniti abbiano voluto con
forza il TTP (il mega accordo commerciale transpacifico) escludendo la Cina e vogliano rafforzare i
legami con l’Europa attraverso il TTIP (il mega accordo commerciale transatlantico). Attenzione però!
Perché, come rileva Romano Prodi in un articolo su “Il Messaggero”, la firma del TTP per ragioni
elettorali appare più lontana (tutti e tre i candidati alla presidenza americana l’hanno criticato) e quella del
TTIP è tutt’altro che scontata per la crescente opposizione che sta incontrando. Di qui il riemergere di
tendenze neo-protezioniste in larghi strati dell’opinione pubblica internazionale. Anche il risultato del
referendum su Brexit va in questa direzione.
Mentre soffia più forte il vento neo-protezionista, il processo di frammentazione delle catene globali del
valore sembra aver raggiunto un limite “fisiologico”. La grande protagonista di questo fenomeno di de-
globalizzazione è sempre la Cina, che sta drasticamente riducendo l’acquisto di beni intermedi e di beni
d’investimento dal resto del mondo. Le importazioni dei primi, che rappresentano i due terzi dell’import
cinese, sono scesi, secondo Confindustria, dal 17,6% del Pil nel 2004 al 13% nel 2011 e all’8,4% nel
2015, mentre quelle dei secondi, che costituiscono il 17% delle importazioni di Pechino, sono passate dal
5,5% del Pil nel 2004 al 3,1% nel 2011 e all’1,9% nel 2015. Molte delle importazioni di beni intermedi e
di investimento vengono sostituite da produzioni interne cinesi. In tal modo le catene del valore si
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