Da Infolampo: Tempo libero – Scuola la guerra del panino
Tempo libero, quale spazio nei contratti
Se è vero che la priorità resta quella della tenuta dell’occupazione, è altrettanto vero che – con l’avvento
delle nuove tecnologie, industria 4.0, la robotizzazione e l’innovazione – la sfera dello svago assumerà
un’importanza sempre maggiore
di Silvana Paruolo
I Cral, Circoli ricreativi aziendali dei lavoratori, rappresentano un patrimonio storico da tempo in
difficoltà. I vari governi che si sono succeduti dagli anni novanta in poi hanno ridotto, per il settore
pubblico, i pochi finanziamenti che venivano loro
concessi. E, per moltissime imprese private, i primi
risparmi sono stati introdotti nell’area del welfare
aziendale a vantaggio di interessi primari, quali tutela
del posto di lavoro e retribuzioni. Negli ultimi anni,
alcuni grandi Cral (come quello delle Poste) sono stati
chiusi; mentre le aziende spingono verso un welfare
individuale.
Il tempo libero quale svago e cultura ha assunto un
ruolo sempre minore e residuale, inteso piuttosto quale
liberazione del proprio tempo: di cura (anziani, figli
piccoli, disabili), di lavoro (flessibilità oraria, congedi),
conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, servizi in
azienda ecc. Le politiche di promozione culturale e
sociale non vengono previste tra gli interventi degli enti
bilaterali. Non è un a caso quindi se c’è chi si chiede se
le agevolazioni fiscali riconosciute alle aziende per il
welfare aziendale non debbano estendersi anche alle quote destinate al finanziamento delle attività
promosse dai Cral.
Per garantirsi una possibile sopravvivenza, diversi Cral hanno preso forme giuridiche di associazionismo.
D’altra parte – come rileva la stessa Fitel, la Federazione italiana del tempo libero di Cgil, Cisl e Uil –
l’iscrizione ai Cral dei soci aggregati attraverso i Crt (Centri ricreativi territoriali) ha rappresentato un
fatto importante, che ha avuto un duplice beneficio: l’aumento degli iscritti e l’apertura delle attività dei
Cral ai cittadini. Ciò detto, è evidente che non mancano quesiti sul tappeto. Quale rapporto con istituzioni
e associazionismo? Come ridefinire i bisogni dei lavoratori? I Cral vanno ripensati, oltre che rilanciati?
Dovrebbero aprirsi di più al territorio? Fanno abbastanza rete? E ancora: andrebbe cambiata la cultura del
contributo e della spesa? A queste (e altre) domande ha tentato di rispondere un seminario della Fitel che
si è svolto il 16-17 settembre a Nova Siri (Matera), dal titolo “Contrattazione e qualità della vita”.
Una tematica di grande interesse, perché se è vero che la priorità resta quella salariale e della tenuta
dell’occupazione, è altrettanto vero che – con l’avvento delle nuove tecnologie, industria 4.0, la
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Pensioni. Incontro con il Governo
spostato a mercoledì 28 settembre
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Scuola, la guerra del panino
La battaglia per il “diritto” di portarsi da casa il cibo che si vuole in alcune scuole del Nord apre uno
squarcio inquietante sulla strisciante e diffusa tendenza a una privatizzazione familistica del sistema
educativo
di Fiorella Farinelli
Mangiare quel che c’è, attorno alla stessa tavola, è un’esperienza che rafforza l’appartenenza comunitaria,
i sentimenti di amicizia e solidarietà. Compagno, si sa, è etimologicamente chi condivide il pane con altri.
Vale anche per i “compagni di scuola”, assieme in aula e dunque anche in mensa? Si direbbe di sì visto
che tra le finalità educative della scuola pubblica c’è che, almeno lì, si sia e ci si senta uguali tra poveri e
ricchi, italiani e stranieri, chi in famiglia riceve ogni cura e chi no. Ma senza le rigidità di un tempo. Negli
anni le mense scolastiche comunali si sono adattate alla composizione sempre più variata della
popolazione scolastica e a una molteplicità di esigenze individuali e delle famiglie. Menù equilibrati tra
tradizioni locali e moderne indicazioni dietetiche, e anche tra ciò che fa bene e ciò che piace di più. E
diversificazioni che tengono conto di prescrizioni religiose , di patologie – allergie-intolleranze, delle
richieste di alimenti biologici e a Kilometro zero. Va tutto bene, anche se le tante, forse troppe?, ansie
qualitative e quantitative dei genitori oscurano qualche volta ciò che dovrebbe contare di più.
L’importanza educativa del sedersi a mangiare tutti insieme, di imparare a rispettare certe regole, e
magari anche a provare un po’ di tutto, per non ritrovarsi da adulti ancora incapaci di apprezzare un sugo
diverso da quello della mamma o della nonna. Si diventa grandi anche così.
Non che tutto vada sempre liscio, in un mondo- bambino fatto per lo più di figli unici spesso vezzeggiati
fuori tempo massimo con attenzioni alimentari tutte speciali. E con genitori sempre più propensi a
considerare la scuola una sorta di protesi della famiglia, come se un luogo educativo non dovesse avere
finalità, regole e modalità dello stare e del crescere insieme inevitabilmente diverse. Ma il modello di
funzionamento delle nostre mense scolastiche, dove ci sono, non è affatto male. E libera – si direbbe – le
mamme da almeno uno dei tanti obblighi difficilmente “conciliabili”. Anche se non è l’unico modello
possibile. Se nella maggior parte dei paesi europei il tempo pieno non è affatto, come succede da noi, una
sorta di optional, ma l’ordinario modo di funzionamento delle scuole del primo ciclo, non è invece
sempre scontato il servizio di mensa. Nel Canton Ticino, per esempio, si considera del tutto normale che
all’ora di pranzo le scuole interrompano l’attività, e che i ragazzini vadano e tornino da casa o utilizzino
servizi outdoor prossimi alla scuola organizzati dai genitori. Stravincono i sandwich, invece, portati da
casa o comprati a scuola per pasti molto informali, in paesi nordici in cui tradizionalmente a tavola, e per
cibi cucinati, ci si siede solo a colazione e a cena. In Francia, invece, tempo pieno generalizzato e mense
dovunque, e con un profilo educativo spiccatamente educativo. Non solo nel significato italiano di
“educazione alimentare”. Fin dalle ultime classi della primaria, parte dei servizi è svolta infatti a turno da
squadrette di bambini che servono in tavola, sparecchiano, riordinano i locali. Perché le responsabilità di
ciò che è pubblico, quindi di tutti, e le abilità pratiche è meglio impararle da subito, e “tra pari”, senza gli
esagerati timori che in Italia impediscono agli studenti ( perfino da grandi nella scuola superiore ) di fare
da soli – tranne, si capisce, le peggio cose. Quanto a noi, il nostro difetto maggiore è in verità che le
mense, come il tempo pieno, in molte aree del paese non ci sono proprio, ed è anzi proprio l’inerzia di
Enti Locali restii ad organizzarle ad essere spesso utilizzato come alibi per evitare alle scuole e agli
insegnanti la responsabilità di chiederlo e gestirlo. L’ 85% delle classi di primaria a Milano sono a tempo
pieno, ma a Palermo non si arriva al 10% , qualcuno nella politica, nel sindacato, nelle associazioni
professionali ancora se ne occupa? E come si fa a tenere aperte le scuole tutto il giorno, come dicono la
Buona Scuola e i parecchi milioni stanziati allo scopo, senza le mense? O senza adottare in modo
condiviso con le famiglie un modello analogo a quello ticinese ?
Ma non è di questo che oggi si discute. Oggi a Torino, Milano, Asti, Genova, Savona, e in altre città dove
c’é il grande vantaggio educativo del tempo pieno, infuria invece la “guerra del panino”, cioè il “diritto”di
portarsi da casa il cibo che si vuole e di consumarlo con gli altri nelle mense comuni. La nostra
normativa, del resto, fa della refezione scolastica un “servizio a domanda individuale”, cioè un servizio
che i Comuni devono garantire quando c’è il tempo pieno ma non un obbligo assoluto per le famiglie. Un
regime – analogo a quello vigente per i nidi comunali – che tra l’altro vorrebbe che i Comuni coprissero
gran parte dei costi con gli introiti delle tariffe. La guerra, cominciata due anni fa da 58 famiglie torinesi,
contro un costo-mensa considerato eccessivo, o comunque squilibrato rispetto alla qualità dei cibi, alla
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