Da Infolampo: Lettera Cgil – Laurea
Caro direttore,
abbiamo letto il tuo editoriale su L’Unità del 7 gennaio che hai scelto di scrivere come lettera al
Segretario generale della CGIL.
Purtroppo, dal tuo articolo dobbiamo desumere che ancora non è sconfitta quella tendenza alla esasperata
personalizzazione del dibattito politico e sociale che a noi pare uno
dei mali più profondi dell’oggi.
Il tuo intervento ci colpisce e non ci piace anzitutto per questo: il
violento, crudo (con toni francamente inaccettabili) attacco alla
persona che porta la responsabilità di essere il Segretario generale
della CGIL, ma che proprio per questo è stata ed è sempre
portatrice e interprete delle decisioni dell’insieme del gruppo
dirigente, mai personali.
Anche tanti di noi hanno conosciuto e lavorato con dirigenti quali
Lama e Trentin e da loro abbiamo tutti imparato una cosa
fondamentale: un grande sindacato generale e confederale deve
sempre stare al merito delle questioni che affronta, altrimenti viene
meno al compito di rappresentare lavoratori e pensionati,
indicando sempre una direzione, una proposta.
Questo è ciò che tu eludi nel tuo intervento, fingendo che il merito
delle cose possa essere rimosso o dimenticato.
La CGIL, insieme a CISL e UIL, ha sempre ricercato la via del negoziato e dell’accordo; lo ha fatto
anche quando il Governo negava ruolo e funzione dei corpi intermedi e quando il merito lo ha consentito
ha sottoscritto accordi importanti.
Dimentichi, ad esempio, il recentissimo accordo quadro per il rinnovo dei contratti pubblici, il verbale di
sintesi in tema di previdenza.
Dimentichi anche l’accordo su rappresentanza e rappresentatività che abbiamo sottoscritto unitariamente
con ormai tutte le più importanti Associazioni datoriali o quello sulle relazioni sindacali.
Accordi che sino ad ora non hanno trovato la giusta attenzione da parte del Governo e del Parlamento.
Su un punto fondamentale la CGIL – in parte unitariamente, in parte no – dissente, non da oggi, con i
Governi che negli ultimi quindici anni si sono succeduti alla guida del Paese: le politiche sul lavoro,
l’assenza di una strategia per l’occupazione, la pervicace azione contro i diritti individuali e collettivi.
Si, caro Staino, su questo non Susanna Camusso, ma tutta la CGIL si è opposta e continuerà ad opporsi.
Anziché scandalizzarsi di tutto ciò, forse anche tu dovresti chiederti se l’evidente fallimento delle
politiche del rigore e dell’austerità, la sconfitta della teoria che precarizzando il lavoro e riducendo i diritti
si sarebbe creata più occupazione, non richiederebbero ad una maggioranza di Governo, che si definisce
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Sull’uso dei voucher per i
pensionati
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Se la laurea è sempre più prerogativa dell’upper class
È difficile pensare che la diminuzione delle immatricolazioni nell’ultimo decennio sia stata “neutrale”
riguardo all’appartenenza sociale degli studenti. La più diffusa interpretazione del calo degli abbandoni
basata sulla teoria dei “costi opportunità”
di Emanuela Ghignoni
Il testo che segue è la sintesi dell’articolo pubblicato nella sezione Tema del n.2 2016 de La Rivista delle
Politiche Sociali. Gli abbonati possono leggerlo qui in versione integrale. Questo è invece il link alla
rubrica che Rassegna dedica alla stessa Rivista
Il fenomeno degli abbandoni universitari prima del completamento degli studi è un problema endemico
dell’università italiana, in parte responsabile della scarsa diffusione di lauree nella popolazione rispetto
agli altri Paesi europei. Già nei primi decenni del ventesimo secolo la percentuale di studenti italiani che
lasciava l’università prima dell’ottenimento del titolo di studio universitario si aggirava tra il 30 e il 40%.
Nei decenni precedenti la seconda Guerra mondiale, però, l’incidenza degli abbandoni precoci degli
studenti provenienti dalle classi sociali più basse non era significativamente diversa da quella degli
studenti dell’upper class. Al contrario, a partire dagli anni del secondo dopoguerra, la dispersione
universitaria si è andata concentrando in misura via via sempre più pesante tra gli studenti provenienti
dalle classi sociali più deboli.
L’esistenza di un legame tra “classe sociale” di origine e abbandoni universitari non è difficile da
spiegare. Le famiglie appartenenti agli strati sociali più elevati sono maggiormente propense a impiegare
risorse per aiutare i propri figli a continuare gli studi, fornendo loro supporto, sia finanziario che
motivazionale. In ogni caso, mentre in alcuni Paesi del Nord Europa, anche grazie al forte sostegno
economico fornito dallo Stato agli studenti, l’incidenza degli abbandoni universitari è scarsamente
influenzata da fattori socio-economici, in Italia l’influenza del background familiare dello studente sulle
scelte di (iscrizione e di) abbandono precoce degli studi universitari è particolarmente significativa.
Non solo. I dati Ocse rivelano che l’Italia è caratterizzata dalla più alta percentuale di abbandoni
universitari su un campione di 15 Paesi europei, mentre il Miur ha calcolato che la percentuale di mancate
reiscrizioni tra il primo e il secondo anno di corso si è mantenuta tra il 15 e il 20% dalla fine degli anni
novanta a oggi, con una percentuale di immatricolati che arrivano alla laurea quattro anni dopo
l’immatricolazione poco superiore al 42%. Neanche la riforma universitaria implementata nel 2001 (dm
509/1999) è riuscita a scalfire il problema se non in modo trascurabile e transitorio, e solo a partire
dall’anno accademico 2007-2008 (coincidente con l’inizio della Grande Recessione) si è notata una
decisa e costante riduzione della percentuale di mancate reiscrizioni.
A tal proposito, la teoria economica ci insegna che un periodo di recessione economica può avere effetti
di segno opposto sulle scelte scolastiche degli individui. In primo luogo, la riduzione dei redditi delle
famiglie e dei tassi di occupazione degli adulti può creare vincoli economici tali da indurre alcuni
individui ad abbandonare gli studi prima del conseguimento del titolo. In secondo luogo, il
peggioramento delle condizioni del mercato del lavoro giovanile può ridurre i “costi opportunità” dello
studio e indurre gli individui a proseguire nel percorso universitario fino a che un’eventuale ripresa
economica non migliori le prospettive di trovare lavoro.
La più diffusa interpretazione del recente calo degli abbandoni nelle università italiane è basata proprio
sulla teoria dei “costi opportunità”. Questa interpretazione rischia però di essere distorta e fuorviante nel
momento in cui si trascuri l’effetto del declino delle immatricolazioni che da oltre 10 anni caratterizza il
nostro sistema universitario. In effetti, è difficile pensare che la forte diminuzione delle immatricolazioni
a cui si è assistito nell’ultimo decennio sia stata “neutrale” riguardo a caratteristiche individuali e familiari
degli studenti capaci di influenzare in maniera significativa la probabilità di abbandonare gli studi prima
del raggiungimento della laurea.
In un recente articolo basato su dati Istat, si mostra come l’insieme degli studenti iscritti all’università è
sempre più composto da individui provenienti dalle classi sociali più alte e da studi superiori a elevato
orientamento accademico. Oltre a questo fatto, che già di per sé avrebbe contribuito a diminuire i dropout
universitari, negli ultimi anni risulta ulteriormente rafforzato il ruolo “protettivo” nei confronti dei rischi
di abbandono precoce degli studi rappresentato dall’appartenere a una famiglia dell’upper class. In
pratica, il differenziale nella probabilità individuale di abbandono precoce degli studi tra uno studente
appartenente alla borghesia e uno studente appartenente alla classe media è aumentato del 3% durante gli
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