Da Infolampo: Beni confiscati – Lavoro
Beni confiscati: Cgil e Fillea scrivono a Grasso, Boldrini
e Bindi
“Subito approvazione codice antimafia per evitare storture come Calcestruzzi Belice”
Roma, 12 gennaio – Cgil nazionale e Fillea Cgil hanno inviato una lettera al Presidente del Senato Pietro
Grasso, alla Presidente della Camera Laura Boldrini e alla Presidente della Commissione Antimafia Rosy
Bindi per metterli a conoscenza della vicenda riguardante il licenziamento dei lavoratori della società
Calcestruzzi Belice di Montevago (Agrigento), confiscata e gestita dell’Agenzia Nazionale per
l’amministrazione dei Beni Sequestrati alla Criminalità
organizzata. In questa occasione Confederazione e categoria
tornano a chiedere al Parlamento di accelerare l’iter per la
definitiva approvazione della riforma del Codice Antimafia.
La missiva di questa mattina segue quella inviata ieri al
Viceministro degli Interni Filippo Bubbico e al Direttore
Generale dell’ANBSC Umberto Postiglione, in cui sono stati
messi in evidenza “i paradossi e le leggerezze” che hanno
portato all’invio, nella giornata di ieri, delle lettere di
licenziamento per i lavoratori.
“Essendo l’azienda sana da un punto di vista produttivo ed
economico – spiegano Cgil e Fillea – arrivare a dichiarare la
medesima fallita per un debito contratto con ENI ben prima
della confisca e di modesta entità (30mila euro), rappresenta
un fatto insopportabile di mala gestione e di scarsa attenzione
da parte degli organismi e dei soggetti preposti che ricade
interamente sui lavoratori e impedisce ad un’azienda
confiscata di consolidare la strada intrapresa di progetto legale”.
“Simili storture – si denuncia nella lettera – si sarebbero potute evitare se la riforma del Codice
Antimafia, già approvata alla Camera e ferma purtroppo da lungo tempo al Senato, avesse avuto
l’approvazione definitiva”. “Quel testo di riforma – sottolineano – è il frutto di una lunga stagione di
discussione e prende le mosse da una proposta di legge di iniziativa popolare (Io Riattivo il Lavoro)
presentata nel 2012, arricchita e ampliata successivamente da altre proposte avanzate dall’On. Bindi, che
ha raccolto il lavoro unanime della Commissione Parlamentare Antimafia, e dal Ministro Orlando”.
“Questo del riutilizzo delle aziende confiscate rappresenta uno dei capisaldi nella lotta al potere mafioso
perché unisce la forza dello Stato alle energie della Società Civile e del Mondo del Lavoro”, sostengono
Cgil e Fillea, che concludono la lettera chiedendo agli “autorevoli rappresentanti dello Stato” di “fare il
possibile per impedire una pericolosa debacle e di accelerare l’approvazione della riforma”.
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Il lavoro, premessa necessaria dell’integrazione
L’inserimento lavorativo dei rifugiati è fondamentale per la loro integrazione nell’Ue. Ma né i governi
nazionali né le istituzioni europee sono riuscite finora a dare una risposta adeguata al problema.
di Sergio Cebrián for VoxEurop
Di fronte alla recente ondata migratoria, le risposte delle istituzioni europee si sono rivelate fallimentari
come quelle dei governi nazionali, e le divisioni fra gli stati membri si sono manifestate in tutta la loro
evidenza nel momento in cui era necessario definire una politica unitaria di accoglienza. La mancanza di
coordinamento di fronte all’arrivo di centinaia di migliaia di immigrati – più di 1,5 milioni nel 2015 e
meno di 400mila nel 2016 (dati Frontex) – provenienti da zone di guerra, come la Siria, l’Afghanistan e
altri paesi asiatici o africani, ha accresciuto i timori dei cittadini europei, già vittime di attacchi terroristici
e della crisi economica, aumentandone la sensazione di vulnerabilità.
Ma emerge chiaramente dal Dna europeo che il vecchio continente è stato sempre terra di accoglienza, e
che il lavoro di chi arriva, in cerca di un miglioramento della propria condizione economica ma anche
della possibilità di godere di uno stile di vita unico al mondo, contribuisce alla crescita dell’Europa.
Per la sua importanza, il tema è stato affrontato in uno studio della Fondazione Bertelsmann, con sede a
Berlino. Il rapporto, intitolato “Da rifugiati a lavoratori: cartografia delle misure di sostegno
all’integrazione del mercato del lavoro per richiedenti asilo e rifugiati negli stati membri dell’Ue”,
fotografa la situazione nei paesi dell’Unione, e segnala un gran numero di carenze, come la mancanza di
una strategia a lungo termine, l’assenza di dati affidabili, o l’elevato numero di ostacoli burocratici.
Secondo Iván Martín, professore del Migration Policy Centre dell’Istituto Universitario Europeo (IUE) e
coordinatore dello studio, “è un errore considerare i rifugiati come lavoratori appena arrivano: fuggono da
guerre o persecuzioni, e spesso non hanno la formazione o l’esperienza lavorativa richieste dai mercati
europei”. L’esperto segnala inoltre altri problemi come i “numerosi ostacoli amministrativi per accedere al
mercato del lavoro, a partire dai permessi di breve durata”, e il fatto che “i centri pubblici per l’impiego o i
corsi di formazione non vengono adattati alle loro specifiche necessità “.
Anche la risposta politica ha palesi margini di miglioramento: secondo Martín, “si è posto l’accento sullo
sviluppo di meccanismi di solidarietà fra i paesi europei per affrontare una sfida che è, essenzialmente,
europea. Gli stati membri, però, si sono rifiutati di accettarli. E le istituzioni comunitarie non sono riuscite
finora a utilizzare le corpose risorse del bilancio europeo, che finanziano l’accoglienza degli immigrati in
tutti i paesi, per imporre meccanismi di coordinamento e solidarietà. Tuttavia, nel nostro studio si
evidenzia che, trattandosi di una sfida europea, e avendo identificato problemi e persino risposte molto
simili nei singoli stati, ci sono tutte le basi per favorire il coordinamento e la cooperazione fra i paesi
europei che potrebbero imparare a vicenda dalle rispettive esperienze”.
In conclusione, aggiunge Martín: “La cosa più urgente da fare è contrastare il clima sociale negativo che
si è creato intorno ai rifugiati nella maggior parte dei paesi europei. La maggioranza di questi rifugiati è
molto giovane, l’83 per cento ha meno di 35 anni e ha davanti a sé un’intera vita lavorativa, di modo che
investire su questi ragazzi significa anche investire sul futuro dell’Europa”.
Il caso della Germania, di gran lunga il primo paese per numero di rifugiati accolti, è indicativo in questo
senso. Dei quasi 1,5 milioni di richiedenti asilo arrivati in Germania nell’ultimo anno e mezzo, solo
30mila hanno un lavoro. Con un tasso di disoccupazione del 4,2 per cento, ben al di sotto della media
europea (10,1 per cento) secondo le cifre di Eurostat, si stimava che alla fine del 2016 sarebbero stati
circa 350mila i richiedenti asilo registrati come disoccupati. Le esperienze dei rifugiati all’ingresso nel
mercato del lavoro non sono molto positive, ed è l’ambito in cui mostrano il maggior grado di
insoddisfazione quando vengono intervistati “, dice Gerhard Hammerschmid, professore della prestigiosa
Hertie School of Governance di Berlino.
Accedere al mercato del lavoro tedesco viene definito “molto complicato” dall’esperto, poiché “tutte le
qualifiche di chi si candida per un’offerta di lavoro devono essere verificate dalle autorità”. Il
procedimento amministrativo dell’Agenzia federale del lavoro tedesca e dell’Ufficio federale per
l’immigrazione e i rifugiati, attraverso il quale viene trovato un impiego a un rifugiato, è lungo e
complesso, e per ottenere i permessi necessari per concludere l’assunzione ci vuole fra un mese e un mese
e mezzo. Ulteriori ostacoli sono l’apprendimento del tedesco o la mancanza da parte dei richiedenti asilo
anche dei più elementari strumenti per l’ingresso nel mercato del lavoro.
In ogni caso esistono iniziative interessanti in questo paese, promosse da esponenti del mondo economico
e della società civile, come quella di Andreas Tölke, un giornalista che ha fondato un’organizzazione per
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