Da Infolampo: Crisi – nonponte
A metà del primo decennio degli anni Duemila s’iniziò a parlare del “declino” economico del Paese in
un numero sorprendentemente alto di convegni, libri, saggi accademici, articoli di giornali, italiani ed
esteri. Tanto da indurre il compianto Luigi Spaventa (nel suo “Commento” in Oltre il declino a cura di
T. Boeri et al., Il Mulino 2005) a chiosare, scrivendo sulle afflizioni dell’economia italiana: “quella
delle diagnosi e prescrizioni per contrastare l’arretratezza è
un’industria – forse la sola – in rapida crescita” (sul tema si
veda anche M. Franzini e A. Giunta, “Ripensare il declino”,
Meridiana, 2005, n. 54).
di Anna Giunta e Salvatore Rossi
Che cosa induceva tanti a parlare di declino? Molte
spiegazioni sono state avanzate per spiegare come, a partire
dagli anni Novanta, l’economia italiana avesse rallentato la
sua crescita, fin quasi a fermarsi: dal crollo della “prima
repubblica” agli sforzi per entrare nell’area dell’euro. Una
delle spiegazioni (S. Rossi, La nuova economia. I fatti dietro
il mito, Il Mulino, 2003) era riassumibile così: il mondo
cambiava e l’Italia non se ne accorgeva.
Il mondo cambiava per due ragioni. La prima è che mutava
la tecnologia dominante: dall’elettricità, che aveva prevalso
per un secolo, alle tecnologie dell’informazione e della
comunicazione (Ict). La seconda è che, conseguentemente, partiva una nuova ondata di globalizzazione
delle società e dei mercati, che vedeva protagonisti i paesi emergenti, in particolare la Cina. L’Italia non
approfittava né dell’uno né dell’altro fenomeno, perchéla sua struttura produttiva si era, da lungo tempo,
frammentata. Tante piccole imprese non erano in grado di trarre tutti i frutti in termini di innovazione e di
produttivitàofferti dalle nuove tecnologie e dall’avventurarsi su mercati lontani.
Ma il peggio doveva ancora arrivare, e ancora dal di fuori dei nostri confini. Dopo il 2007 si è avuto nel
mondo quello che definiamoun “decennio breve”, denso di accadimenti, tutti ruotanti intorno allo scoppio
della gigantesca bolla finanziaria che si è prodotta negli Stati Uniti, con la recessione mondiale che ne è
seguita. Per effetto di tutto ciò sono rallentati gli scambi commerciali globali, sono aumentate le
disuguaglianze nei paesi avanzati, è stata compromessa l’Unione europea. È stata, altresì, minata la
fiducia nel futuro, alimentando, in alcuni paesi, una specie di cupio dissolvi e in altri quantomeno il
timore di una “stagnazione secolare”(L. Summers, “The age of secularstagnation”, Foreign affairs, 15
Febbraio, 2016). Da ultimo sono emersi e si vanno rafforzando rischi geopolitici: il terrorismo, le grandi
ondate migratorie, l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea, il protezionismo del nuovo
presidente degli Stati Uniti.
La nostra economia, pur incolpevole delle cause della crisi mondiale, ne ha pagato un prezzo molto alto,
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Ceta, Strasburgo ha detto sì.
Durante (Cgil): un errore
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Il non ponte succhiasoldi
La Stretto di Messina spa costa due milioni di euro l’anno. Che si aspetta a chiudere un ente che per
decenni ha pagato megastipendi (più benefit) ai suoi amministratori solo per accumulare montagne di
documenti e rilevazioni tanto salate quanto inutili?
di Giorgio Frasca Polara
Nata nel 1981 – quasi quarant’anni addietro, voluta dal preistorico quadripartito di Forlani, quello che non
voleva pubblicare le liste della loggia P2 – per “progettare, realizzare e gestire il collegamento stabile tra
la Sicilia e il resto del Paese”, la Stretto di Messina SpA era stata messa finalmente in liquidazione a
partire dall’1 ottobre del 2007 e messa a carico dell’Anas che ha il controllo assoluto delle sue azioni,
oramai ridotte a valori omeopatici. Ma questa benefica iniziativa (un energico “basta” alla demagogia, al
balletto di perizie e controversie sull’effetto disastroso delle correnti e dei sismi sulla faraonica opera) non
è affatto bastata a chiudere il capitolo-ponte.
E questo perché nel 2005 era stato firmato (pronube Silvio Berlusconi, allora presidente del Consiglio) un
contratto tra la società dello Stretto e un gruppo di costruttori capeggiati da Impregilo per la progettazione
definitiva ed esecutiva del famoso o famigerato ponte. Ma questo contratto era stato rescisso dal governo
Monti nel 2012, e l’anno dopo era stato nominato un commissario liquidatore della Stretto di Messina
SpA con l’incarico di definire, entro un anno, ogni adempimento connesso alle procedure previste dalla
legge fallimentare.
Bene, non uno ma quasi quattro anni non sono ancora bastati al commissario liquidatore (il prof.
Vincenzo Fortunato, l’ex potentissimo capo di gabinetto del Tesoro) per, come dire?, estinguere la società
grazie alla quale in tanti decenni molti amministratori hanno goduto di megastipendi, di vari benefit, di
una condizione di assoluto privilegio senza mai raggiungere una qualsiasi meta che non fosse la raccolta
di una piramide sempre più alta di documenti e di rilevazioni pagate salatissime e decisamente inutili.
Ma tutto questo ha un risvolto scandaloso, appena denunciato dalla Corte dei Conti attraverso una
delibera della sua Sezione centrale di controllo sulle amministrazioni dello Stato. Ebbene, ancora oggi la
società del non-stretto costa annualmente all’erario, cioè a tutti noi, una cifra “superiore ai due milioni di
euro” (dato 2015) che per chi non lo ricorda equivalgono a qualcosa come quattro miliardi delle vecchie
lire. Insomma, i costi di gestione, benché un pochino ridotti l’anno passato, risultano “ancora rilevanti”
(ben sopra il milione di euro) e quindi sarebbe opportuno “accelerare la chiusura” della società i cui
organi sociali sono sempre lì, a percepire stipendi e indennità del tutto ingiustificati, come insiste la Corte
dei Conti.
Né lo scandalo si ferma qui. La Stretto di Messina SpA ha anche aperto un contenzioso con altre
amministrazioni dello Stato (la società in liquidazione è anch’essa statale) pretendendo “rilevanti somme
a titolo di indennizzo per un ammontare di circa 300 milioni di euro”. Per giunta questo contenzioso si
somma a quello aperto dal consorzio guidato da Impregilo per la mancata realizzazione dell’opera. Una
lite che, a parere non di un osservatore qualsiasi ma proprio della suprema magistratura contabile, “risulta
contraria ai principi di proporzionalità, razionalità e buon andamento dell’agire amministrativo”. Da qui
la sollecitazione agli azionisti della società del non-ponte (in primo luogo l’Anas, titolare dell’81,8% del
capitale, ma l’unico socio dell’azienda delle strade è il ministero dell’Economia…) di compiere “una
specifica valutazione dei vantaggi conseguibili dal contenzioso attivo a fronte di costi certi per la
permanenza in vita della stessa società”.
Come dire che l’unica ragion di vita della Stretto di Messina SpA sarebbe quella di proseguire il
contenzioso con le amministrazioni statali, due entità – la società e gli enti pubblici – che per i giudici “al
contrario dovrebbero agire all’unisono nel superiore interesse del buon andamento amministrativo”. Che
fa il governo? Continua ad assistere passivo a questa incredibile megasceneggiata? Sono gli interrogativi
posti di recente nell’aula della Camera attraverso il question time. La risposta, che definire deludente è un
benevolo eufemismo, è stata data personalmente dal ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture, Graziano
Delrio, che si è limitato a leggere una velina, redatta in burocratese spinto (“in ragione della caducazione
avvenuta”, “l’intervento in oggetto”, “supportato… e relazionato”) che non ha risposto ad alcuna delle
domande poste dall’interrogazione di un deputato.
Delrio non infatti ha detto una parola sull’indecente prolungarsi del lavoro del liquidatore; non ha detto
una parola sul fatto che gli amministratori di una società in liquidazione continuano a percepire stipendi,
indennità e quant’altro; e si è limitato ad apprezzare le durissime parole della Corte dei Conti (anche sulle
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