Appunti di viaggio: Vietnam
Quando rientro da un viaggio, specie se lungo ed esotico, mi riesce comunque difficile vincere la
tentazione di “ buttar giu’ “ qualcosa, così, tanto per fissarne almeno una porzione di ricordo. Ma,
nel contempo, tentare di realizzare anche una modesta opera disitossiccante di tutto l’ineluttabile
stress accumulato. Perchè scrivere, lo ammetto, riesce a procurarmi da sempre un tale magico
effetto. Quindi, anche questa volta, cedo…
Sono stato in Vietnam. Pigierò i tasti quanto basta per arrivare fino al fondo della pagina, ma con
una promessa ben precisa : quella di neppur sfiorare la politica (un’impresa ardua, peraltro, in
quanto stiamo parlando del Vi-et-nam, mica no !).
Orbene, in venti giorni, da solo e sprovvisto quasi totalmente di conoscenze linguistiche (le lingue
sono un po’ come i muscoli degli arti, se non li eserciti si afflosciano) ho fatto tutto quello che era
disumanamente possibile fare. Mi sono comportato come un robot temerariamente radio-
comandato ancor più che come un turista caparbio e perfettamente incosciente. In movimento
senza soluzione di continuità nelle ore del mattino, in quelle del pomeriggio, della sera e della
notte, fino all’inebetimento pressochè totale, sfidando le regole della natura e correndo il rischio
che le troppe azioni, quando si compiono in un lasso temporale poco ampio, potrebbero generare
danni al fisico e al cervello. A Saigon (dopo l’unificazione Nord-Sud solennemente ribattezzata Ho
Chi Min City) ho visitato tutti i musei esistenti, sia i nuovi sia gli storici; ho conosciuto la suburra
più bieca; ho lavato i miei capelli in una barberia del neolitico; ho affidato i miei polmoni
all’auscultazione di una giovane improbabile dottoressa sorridente, confusa e imbarazzata; ho
solcato il sacro Mecong; ho sperimentato tutti i generi di massaggio (tutti); ho raggiunto spossato e
calcando i piedi, l’ultimo “ mozzafiato “ piano del più alto edificio della Cocincina; ho assaggiato “
piatti “ rivoltanti; ho viaggiato su un’infinità di taxi spendendo cifre da capogiro (in certi casi
anche più di tre euro…); ho tracannato ettolitri di succo di cocco e trangugiato quintali di mango;
ho osservato nello zoo di Stato – e a distanza ravvicinata – bestie asiatiche di cui ignoravo
l’esistenza; ho “ ispezionato “ anche un minuscolo ed elegante casinò (con l’accento sulla “ o “ !);
ho riparato le scarpe da un ciabattino locale a denominazione controllata (l’episodio certamente più
surreale) e mi sono persino pappato, quasi interamente, una pomposa messa in una chiesa
(francese), celebrata da un prete (vietnamita) e in una lingua familiare (latino). Infine, voglio ben
rammentarmi che solo per un miracolo, come suol dirsi, non sono finito sotto le ruote di una
motoretta, una delle decine di migliaia in circolazione e condotte da “ indigeni “ audaci e
sconsiderati che zig-zagano sistematicamente anche sui marciapiedi, assolutamente incuranti dei
pedoni. E, Lui, non mi ha mai perso di vista : in marmo, in bronzo o in megafoto, negli uffici
pubblici, nelle piazze e negli angoli più remoti, Lui, il mandarino Ho Chi Min, talvolta anche privo
del suo leggendario pizzetto e con il suo flebile sorriso, che benedice tutto e tutti, dai derelitti che
dormono nel fango, ai questuanti, dagli artigiani sudici e smunti che faticano nelle loro fatiscenti
bottegucce alle grandi banche anglo-americane, dai luminosi negozi di Armani e Gucci agli
effervescenti MacDonalds, dai prestigiosi ristoranti internazionali ai grandi alberghi extra-lusso.
Che strana Saigon ! A pochi metri dagli scintillanti ingressi dei tanti lindi e maestosi hotel,
rotolano nell’orina creaturine senza futuro sotto gli occhi annoiati delle madri e mendicano vecchi
rinsecchiti che rimirano i turisti con espressioni atarassiche di perfetto stampo buddista. Del resto,
la città (l’unica che io abbia conosciuto in quel Paese) altro non si può definire che un’immensa
discarica, gravata da un’aria umida e fetida e al centro della quale sorge un grande agglomerato
urbano elegante e pretenzioso. E così si è generato un contrasto impensabile che, anche senza
possedere una fantasia ariostesca, mi potrei azzardare a esemplificare con la seguente cifra di
lettura, suggestiva e scherzosa, ma che giudico di agevole intendimento : mettere in uno shaker
Calcutta, Chicago e Napoli, agitare e servire a temperatura ambiente…
Voglio riflettere un po’. Ho ammirato la devozione e la semplicità con le quali la gente prega
prostrata davanti a edicole bislacche dove vengono messe in onore statuette di terracotta
raffiguranti buffi personaggi, facce maschili o femminili con occhi sporgenti e smorfie minacciose.
Le orazioni vengono accompagnate da offerte : sassetti, pettinini, bottigliette di coca-cola,
dolciumi. Che gente semplice e simpatica ! Tuttavia, l’onesto e astuto dottor Ho Chi Min, puro
sangue blu della Cocincina e sognatore di professione, se potesse vedere adesso il suo Paese si
rivolterebbe nel loculo. Ma la supremazia, con buona pace del padre della patria unificata, spetta
sempre alla logica umana e alla forza delle cose. Il comunismo, che in effetti non c’è mai stato, e
non c’è (e non ci potrà mai essere) non c’entra niente. Le congetture di Carletto Marx (e del suo
compagno di merende Engel, con cui nel 1848 diede alle stampre il “ Manifesto “, che apriva con
queste parole precise : “ Uno spettro di aggira per l’Europa …”) in quella terra tropicale si sono
incagliate e si incaglieranno sempre. Le idee “ bolsceviche “ farebbero ingresso, quello vero, in
terra vietnamita senza dubbio in maniera vacillante, volatile e, dunque, il dissolvimento sarebbe in
agguato dietro l’angolo. Nel Vietnam, il pensiero (millenario) è orizzontale, non verticale – come
da noi – . Quel popolo intende, osserva, ragiona e parla come al tempo di Sua Maestà Nam Viet,
due secoli prima di Cristo. Razza fiera e antica, di animo gentile e indole pacifica, che si è sempre
ribellata a chiunque e con risolutezza : ai mongoli, ai cinesi, ai francesi, agli americani. Ma porca
puttana miseria, che cavolo di senso ha la bandiera con la falce e martello che sventola sui
tetti dei pubblici edifici ?
Ah, già… la politica, avevo promesso. Stop.
(Fabiano Del Papa)