Da Infolampo: Voucher – profitti
Voucher e Jobs Act bocciati dai social
Un’indagine di Kapusons sulle conversazioni online rivela che 8 italiani su 10 sono contrari all’utilizzo
dei buoni. Ancora più negativo il giudizio sulla riforma del lavoro. Dati simili a quelli di un sondaggio
Tecné realizzato con interviste telefoniche
Oltre il 79% delle conversazioni online boccia i voucher, mentre il Jobs Act non piace a quasi l’88% degli
utenti della rete. È quanto emerge da un’indagine che Kapusons – azienda che si occupa di
comunicazione sul web – ha condotto tra il 15 gennaio e il 5
marzo in vista dei referendum su voucher e appalti per i
quali si voterà il prossimo 28 maggio. Tramite una apposita
piattaforma, spiega l’azienda in una nota, sono stati vagliati
oltre 66mila contenuti (sia dai giornali online sia dai social
network) per poi isolare e analizzare i post di twitter e
facebook in cui fossero stati citati almeno una volta i
voucher e il Jobs Act (anche come hashtag), pesandoli infine
in base ai livelli di influenza della fonte. Il risultato è stato
netto: in 8 casi su 10, i voucher registrano opinioni negative,
così motivate: hanno fallito nel combattere il sommerso
(62%); negano i diritti dei lavoratori, anche sottopagandoli
(20%); non permettono di progettare un futuro (17%). Tra i
critici del Jobs Act, invece, il 57% sottolinea il fallimento
nel combattere la disoccupazione giovanile; per il 25% non
ha aumentato i posti di lavoro, mentre il 17% ritiene che la
riforma abbia leso e negato i diritti.
A difesa dei voucher troviamo invece due conversazioni
online su dieci. Tra i favorevoli, la maggior parte – circa la
metà – si riferisce alla possibilità di combattere il lavoro nero. Il 37% ritiene che debbano essere utilizzati
solo per i lavori occasionali, mentre per il 18% i problemi non riguardano lo strumento, bensì l’uso che ne
viene fatto. Quanto al Jobs Act, le opinioni positive più ricorrenti, entrambe con il 41%, dicono che ha
realmente creato posti di lavoro e, anche se migliorabile, la riforma è riuscita a smuovere qualcosa.
Un sondaggio di Tecnè svolto nello stesso periodo con la classica intervista telefonica ha confermato che
l’82% degli intervistati ha bocciato il Jobs Act, mentre l’84% voterebbe per l’abolizione dei voucher.
Numeri molto vicini all’analisi condotta da Kapusons. “Non è però metodologicamente corretto –
chiarisce la società di comunicazione – trasformare i giudizi dell’analisi del sentiment in orientamento di
voto. Spesso ci si dimentica che molti utenti del web non danno seguito alle loro opinioni con azioni
concrete, mentre non va mai sottovalutato l’impatto della maggioranza silenziosa. Insomma, la rete ha
parlato e (per ora) ha bocciato pesantemente voucher e Jobs Act, ma le previsioni dei risultati di voto al
prossimo referendum del 28 maggio li lasciamo volentieri ai sondaggisti e agli indovini. Le elezioni di
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Nasce il Comitato di
coordinamento dei Sindacati
pensionati del Mediterraneo
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Licenziare per aumentare i profitti
La sentenza 7 dicembre 2016, n. 25201, con cui la sezione lavoro della Corte di cassazione ha affermato
la legittimità di un licenziamento motivato dall’esigenza di rendere più snella la «catena di comando» di
un’impresa per ridurre i costi della gestione aziendale e, quindi, per ottenere prevedibilmente un
incremento dei profitti, ha avuto un’eco nella stampa quotidiana assai raramente riservata ad una
pronuncia di legittimità, che pure tocchi, come in questo caso, questioni certo così rilevanti sul piano
sociale, quali sono, peraltro, sempre quelle sollevate dai licenziamenti giustificati da ragioni
economiche.
di Stefano Giubboni
Le numerose reazioni critiche suscitate dalla decisione della Cassazione hanno così sorpreso gli addetti ai
lavori, che non vi hanno colto elementi di novità tali da giustificare – almeno da un punto di vista tecnico
– un tale clamore mediatico (e va pur detto che le più recenti sentenze, ad esempio la n. 4015 del 2017,
con cui la Corte ha confermato l’orientamento espresso in quella pronuncia sono nuovamente passate,
come di consueto, del tutto inosservate nella stampa quotidiana). Il dibattito suscitato da quella sentenza –
al di là del fatto che essa abbia o no espresso un nuovo principio di diritto – ha peraltro avuto il salutare
effetto di portare all’attenzione dell’opinione pubblica questioni molto rilevanti, che meritano di essere
discusse ben oltre la ristretta cerchia degli addetti ai lavori, in quanto attengono, fondamentalmente, al
modo in cui oggi il nostro ordinamento configura il rapporto tra la libertà economica dell’imprenditore e
il contrapposto interesse del lavoratore alla conservazione del proprio posto di lavoro, almeno tutte le
volte in cui esso non sia direttamente minacciato da una situazione di vera e propria crisi d’impresa.
In effetti, il principio di diritto affermato dalla sentenza n. 25201 del 2016 – ovvero che ai fini della
legittimità del licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo l’andamento economico
negativo dell’azienda non costituisce un presupposto fattuale che il datore di lavoro debba
necessariamente provare, essendo sufficiente che le ragioni inerenti all’attività produttiva e
all’organizzazione del lavoro, tra le quali possono ricomprendersi quelle dirette a una migliore efficienza
gestionale ovvero a un incremento della redditività dell’impresa, determinino un effettivo mutamento
dell’assetto organizzativo, attraverso la soppressione di una individuata posizione lavorativa – non
rappresenta, a rigore, una novità nella giurisprudenza della Corte di cassazione e ancor meno nelle
elaborazioni dottrinali (che possono far leva sull’autorevole ricostruzione in tal senso proposta da
Giuseppe Pera già a metà degli anni Sessanta). Anche in precedenza la Corte aveva infatti avuto modo di
affermare che le ragioni che giustificano, ai sensi dell’art. 3 della legge n. 604 del 1966, il licenziamento
individuale per motivo oggettivo possono ricomprendere anche motivazioni economiche riconducibili a
fattori interni alla gestione dell’impresa, e quindi anche iniziative datoriali assunte in vista di «una
organizzazione più conveniente per un incremento del profitto» (così ad esempio la sentenza n. 5777 del
2003).
Tuttavia, sino alla sentenza n. 25201 del 2016, tale orientamento più liberale poteva considerarsi
relativamente minoritario nella giurisprudenza della Cassazione, prevalendo un indirizzo volto ad
escludere che un riassetto organizzativo deciso dall’imprenditore in vista di un incremento dei profitti
potesse costituire una valida giustificazione del recesso, e ritenendosi, invece, che il presupposto
costituito da una sfavorevole – e non contingente – situazione economica costituisse, pur in assenza d’una
espressa previsione della legge in tal senso, un requisito di legittimità intrinseco al licenziamento per
giustificato motivo oggettivo. Questo orientamento più restrittivo, ispirato ad una diversa ponderazione
degli interessi in gioco, volta a garantire la prevalenza di quello del lavoratore alla conservazione del
posto in assenza di una situazione economica sfavorevole per l’imprenditore, dopo la sentenza n. 25201
sembra essere così superato dalla Suprema Corte, almeno a giudicare dalle prime pronunce successive a
tale decisione.
È evidente che la Cassazione, nell’applicare la previsione dell’art. 3 della legge n. 604 del 1966, che
lascia sostanzialmente indeterminata la nozione di giustificato motivo oggettivo, si sia ispirata, con tale
pronuncia, ad un diverso modello di bilanciamento degli interessi in rilievo, privilegiando risolutamente –
a differenza che in passato – la libertà di iniziativa economica dell’imprenditore, ex art. 41, comma 1,
Cost., rispetto alla salvaguardia della stabilità del rapporto di lavoro. Così come spetta all’imprenditore
stabilire, in piena libertà, la dimensione dell’organico aziendale nel momento genetico dell’intrapresa (e
della costituzione del rapporto di lavoro), allo stesso modo – spiega la Corte – «anche durante la vita
dell’azienda la selezione del livello occupazionale dell’impresa rimane libera e non può essere pertanto
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