Da Infolampo: Bavaglio – democrazia
Nelle carceri turche ci sono 174 giornalisti: il più grande carcere a cielo aperto per chi fa informazione.
È per loro, per i colleghi turchi, che i cronisti italiani il 2 maggio saranno in piazza nella Giornata
internazionale per la libertà di stampa
di Silvia Garambois
Gabriele Del Grande è stato liberato: una grande notizia. Ma resta il fatto che ha lasciato la Turchia solo
perché è stato espulso – grazie all’azione diplomatica internazionale e al clamore e alle manifestazioni in
suo favore in Italia e in Grecia – e che dopo due settimane di detenzione non si conoscono neppure le
accuse che hanno portato alla sua prigionia. In quelle carceri
però ci sono ancora 174 giornalisti, una enormità, di cui spesso
non si riesce neppure ad avere notizie certe. Il più grande carcere
a cielo aperto per giornalisti, come lo ha definito il giornalista
turco Can Dundar. E anche la libera stampa turca è stata
decimata.
È per loro, per i colleghi turchi, che i giornalisti italiani il 2
maggio saranno in piazza: la Giornata internazionale per la
libertà di stampa viene dedicata quest’anno all’informazione nel
Paese di Erdogan, perché – come dice la Fnsi chiamando alla
iniziativa indetta in piazza Montecitorio – “il diritto di esprimere
liberamente le proprie opinioni, garantito dalle convenzioni
internazionali, e il diritto di informare ed essere correttamente
informati, è pilastro di ogni ordinamento democratico”.
#NobavaglioTurco – dalla Turchia all’Italia contro tutti i bavagli per difendere l’informazione: è questo lo
slogan e la sintesi della manifestazione, a cui hanno aderito le associazioni che hanno a cuore la libertà di
stampa.
Anche per quel che riguarda il nostro Paese, infatti, pur lontani dalla drammatica situazione turca, lo stato
di salute dell’informazione continua ad essere assai precario: è stata pubblicata da poco la classifica di
Reporter sans frontieres sulla libertà di stampa nel mondo, e l’Italia – pur guadagnando qualche posizione
– è sempre una “osservata speciale”, fanalino di coda nella Unione europea. A relegarla al 52esimo posto
della classifica, secondo Rsf, “il livello allarmante di violenza contro i giornalisti, comprese le minacce e
le intimidazioni verbali e fisiche”.
“Sei giornalisti italiani – spiega il focus sull’Italia – sono ancora sotto protezione della polizia 24 ore su 24
a causa delle minacce di morte subite, principalmente, dalla mafia o da altri gruppi criminali. Il livello di
violenza contro i giornalisti (comprese le minacce e le intimidazioni verbali e fisiche) è allarmante, anche
per il comportamento di alcuni politici come Beppe Grillo, che non esitano a fare pubblicamente i nomi
dei cronisti sgraditi. I giornalisti che si sentono sotto pressione da parte dei politici sempre più spesso
Leggi tutto: http://www.radioarticolo1.it/articoli/2017/04/28/8033/no-al-bavaglio-di-erdogan
«Basta precariato,
contratto subito»
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Come ti smonto la democrazia
Dopo una transizione riuscita dal comunismo alla democrazia, l’Ungheria e la Polonia stanno
lentamente scivolando verso un tipo di regime autoritario alla russa, e si allontanano dai valori
fondamentali europei. Una tendenza che si estende all’intera regione.
di Wojciech Przybylski | Edit Zgut for VoxEurop
Il 10 aprile il presidente ungherese János Áder ha firmato la legge che permetterà al governo di Budapest
di espellere dal paese la Central european university (Ceu). La norma, ribattezzata Lex Ceu, è diventata il
simbolo del regime ibrido che vige in Ungheria, una democrazia che scivola sempre più verso il
totalitarismo (contro la decisione del governo circa 80mila persone hanno manifestato a Budapest il 9
aprile). Quello che succede a Budapest, tuttavia, non è un fenomeno isolato, ma una tendenza che
riguarda anche altri paesi dell’Europa centrorientale. Come risulta dal rapporto Nations in transit 2017
della Freedom house, in materia di istituzioni e valori democratici 18 paesi sui 29 esaminati hanno fatto
passi indietro.
Non è la prima volta che si registra un arretramento della democrazia, ma è sorprendente notare che due
paesi in cui la transizione era stata un successo – l’Ungheria e la Polonia – stanno facendo marcia indietro
e stanno diventando regimi ibridi.
La Ceu è forse l’unica università regionale a occupare posizioni di rilievo nelle classifiche internazionali
sull’istruzione superiore. È stata fondata dall’imprenditore magiaro-statunitense George Soros a New
York, accreditata per la prima volta a Praga nel 1991 e poi trasferita a Budapest.
L’autoritarismo competitivo
A quanto pare il premier ungherese Viktor Orbán non scherzava quando ha definito il 2017 “l’anno della
cacciata” di Soros dal paese. Oltre a “spazzare via” alcune ong finanziate dalla fondazione Open society,
Orbán ha deciso di attaccare anche “l’università Soros”, come lui chiama la Ceu.
La nuova legge è stata criticata apertamente da decine di premi Nobel, centinaia di istituti di ricerca e
perfino dal presidente tedesco. Eppure è stata approvata in soli cinque giorni, con un unico emendamento,
secondo il quale per salvare la Ceu è necessario un accordo che andrà negoziato entro settembre dai
governi dei due paesi coinvolti, Stati Uniti e Ungheria.
Attaccare una delle più prestigiose istituzioni universitarie dell’Europa centrale ha un significato
profondo, e illustra bene la natura di un regime che tollera sempre meno il dibattito aperto la libera
ricerca.
Potrebbe essere una coincidenza, ma una settimana prima dell’approvazione della Lex Ceu la Russia
aveva revocato la licenza dell’Università europea di San Pietroburgo. L’Ungheria ha preparato anche
un’altra legge copiata dalla Russia: quella che bolla le ong che ricevono finanziamenti dall’estero per
almeno 24mila euro come una minaccia alla sicurezza nazionale. Questi gesti non rivelano solo il
tentativo di Orbán di imitare i metodi di Putin, ma anche l’erosione del sistema di controlli e contrappesi e
del principio secondo cui il governo deve rispondere dei suoi atti. L’atteggiamento di Mosca e Budapest
si basa su una comune ideologia nazionalista e antioccidentale che affonda le radici nella presunta perdita
di un passato glorioso (la Russia imperiale e la “grande Ungheria” di anteguerra). A differenza della
Russia, però, l’Ungheria rimane un paese occidentale e democratico, membro dell’Unione europea e della
Nato.
L’Ungheria di Orbán può essere inserita nella lista dei cosiddetti regimi ibridi, in cui le istituzioni
democratiche e lo stato di diritto non sono distrutti ma svuotati di ogni contenuto ed efficacia. A Budapest
le istituzioni democratiche esistono ancora, ma funzionano male. Dal 2010 il loro ruolo di controllo del
potere si è progressivamente ridotto. Il parlamento è ormai una fabbrica di leggi dominata dal governo,
che in questi anni ha intaccato l’autonomia o assunto il controllo di tutte le istituzioni che avrebbero
potuto controllarne l’operato. Anche la libertà dei giornalisti è stata fortemente limitata. Per usare una
definizione dei politologi Steven Levitsky e Lucan A. Way, il regime ibrido ungherese è una sorta di
autoritarismo competitivo: un sistema che mantiene solo l’illusione della competizione democratica.
L’Unione europea potrebbe in teoria intervenire attivando i suoi meccanismi di tutela dello stato di diritto,
ma, dopo la Brexit, è molto prudente con i paesi ribelli. La procedura, inoltre, non permette interventi
concreti, come si è visto con la Polonia. Forse, invece, è il momento che il Partito popolare europeo
escluda dai suoi ranghi il partito di Orbán. Tollerando il regime ibrido ungherese, infatti, rischia di creare
un precedente pericoloso in un’Europa centrorientale sempre meno democratica.
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