Infolampo: Equità – Donna
Un nuovo contratto sociale per crescere con equità
Il sindacato internazionale ha presentato ai ministri dell’Ocse le proposte per uscire dalla crisi. Basta
con l’austerirty e intervento dello Stato in economia. Fondamentale il ruolo della contrattazione
collettiva. I salari devono tornare a salire
di Fausto Durante
Si conclude oggi, 8 giugno, con la riunione del Consiglio dei ministri dei paesi dell’Ocse, il forum di
dibattiti e di incontri che l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico ha tenuto nel
corso della settimana nella propria sede di Parigi. L’edizione di quest’anno si è svolta in un contesto
fortemente segnato dalle evidenti tensioni nello scenario internazionale, dal clima di insicurezza derivante
dal ripetersi di atti di terrorismo in tante aree del mondo, dai
risultati elettorali che in diversi paesi hanno evidenziato
sentimenti di avversione da parte dei cittadini nei confronti
di governi, sistemi politici, istituzioni economiche e
finanziarie globali. Un quadro che denota una sorta di vera e
propria crisi dell’idea di democrazia, nel cortocircuito
causato dall’assenza di regole e di governo della
globalizzazione, che sta creando evidenti fenomeni di
polarizzazione nelle società e nei mercati del lavoro, oltre
che nuove e profondissime disuguaglianze.
Da un lato, le risposte sbagliate alla lunga e duratura crisi
economica producono su scala globale il peggioramento
delle condizioni generali di vita e di lavoro per le persone
che vivono di lavoro dipendente, dando corso a quel
processo di impoverimento della “classe media” alla base
della crisi di consumi, di domanda, prospettiva e
miglioramento sociale per sé e per le proprie famiglie, processo che caratterizza il tempo presente.
Dall’altro lato, la voracità del capitalismo e della finanza costruisce le migliori condizioni per il costante
arricchimento di élite sempre più ristrette di privilegiati, per i floridi bilanci delle multinazionali, per i
guadagni smisurati di azionisti e amministratori delegati, senza alcuna considerazione per il destino di
quanti vedono in questo stato delle cose la causa della loro insicurezza, della precarietà del proprio
reddito e del proprio lavoro, della mancanza di speranza per il futuro.
La stessa Ocse, che al Forum del 2016 aveva concentrato i lavori sulla questione delle disuguaglianze,
ammette – per quando indirettamente e nella maniera felpata dei documenti e delle dichiarazioni ufficiali
– che il mondo continua ad essere segnato da ingiustizie e iniquità nella distribuzione globale del reddito
e delle opportunità e che i governi hanno la responsabilità di mettere in campo politiche adeguate per
rispondere in senso socialmente sostenibile a queste sfide di carattere mondiale. Sfide che vedono
aggiungersi, ai temi da tempo conosciuti, quelli inediti della digitalizzazione dell’economia, della nuova
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Una storia a metà
Nelle scuole italiane i manuali raccontano ancora una storia a metà, dove le donne non compaiono
oppure sono un’eccezione. L’indagine condotta su 18 volumi di 15 case editrici
di Elisabetta Serafini
L’inclusione della storia delle donne e degli studi di genere nei libri di testo in Italia è senza ombra di
dubbio un traguardo ancora lontano dall’essere raggiunto, nonostante la normativa relativa alle pari
opportunità abbia alle spalle una storia più che ventennale.
Questa storia ha avuto inizio nel 1999, quando il Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza
del Consiglio dei Ministri e l’Associazione Italiana Editori, tra gli altri, approvavano un codice per le pari
opportunità nei libri di testo, il P.O.Li.Te. Il codice si innestava su una riflessione di vasta portata
riguardante la questione delle pari opportunità – con riferimento, allora, ad “ambedue i generi” (punto
A.2) – e la necessità di affrontarla non come problema contingente o separato ma come azione politica da
porre in termini positivi in molteplici settori, non ultimo quello dell’istruzione.
L’urgenza dell’intervento nel settore scolastico, e non solo strettamente manualistico, era stata posta
nell’ambito della quarta World conference on women di Pechino del 1995, dell’europeo Quarto
programma d’azione per le pari opportunità per le donne e gli uomini del 1996-2000, e accolta dalla
Direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministri del 27 marzo 1997, recante “azioni volte a promuovere
l’attribuzione di poteri e responsabilità alle donne, a riconoscere e garantire libertà di scelte e qualità
sociale a donne e uomini”.
Più recentemente, il tanto discusso decreto legge 93 del 14 agosto 2013 – convertito nella legge 119/2013
e contenente “disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere” –
ritornava sulla rilevanza dei libri di testo nella prevenzione della violenza nei confronti delle donne e
della discriminazione di genere. L’articolo 16 della legge 128/2013, inoltre, prevedeva finanziamenti alla
scuola per l’aumento “delle competenze relative all’educazione all’affettività, al rispetto delle diversità e
delle pari opportunità di genere e al superamento degli stereotipi di genere”.
Se al momento della sottoscrizione del codice P.O.Li.Te. l’aspetto che emergeva con più evidenza era
l’assenza delle donne nella manualistica, oggi – a distanza di quasi vent’anni da quella data – le criticità
sembrano non essere legate soltanto e ancora a una narrazione storica incompleta ma anche a un
inserimento opinabile.
L’assenza e la discutibile inclusione di questa importante parte di sapere nei testi di storia in uso nella
scuola primaria e secondaria di primo grado – di cui mi sono specificamente occupata – appaiono ancor
più intollerabili perché doppiamente anacronistiche, a causa non solo della mancata o parziale
considerazione degli strumenti nati a tutela delle pari opportunità – a cui nel frattempo si sono aggiunti
riferimenti legislativi rimasti lettera morta[1] – ma anche e soprattutto dell’inadeguatezza rispetto allo
stato dell’arte.
Molta strada è stata infatti percorsa in ambito storiografico – italiano ed internazionale – a partire dalla
seconda metà del secolo scorso; notevoli sforzi divulgativi sono stati compiuti per favorire l’ingresso a
pieno titolo delle donne nel racconto storico, per condurle fuori da quella sfera dell’immutabile nella
quale erano sempre state collocate dalle grandi narrazioni. A larga distanza da quella fase il vuoto è stato
in gran parte colmato, ponendo anche la questione dell’urgenza di decostruire e ridiscutere i quadri di
riferimento.
La manualistica scolastica si è però palesata impermeabile a questo significativo adeguamento del sapere,
nonostante gli impegni presi ufficialmente dalle case editrici ma soprattutto nonostante le esigenze
educative che nascono dal basso, da studenti e da docenti che nella maggior parte dei casi si trovano a
rispondere con l’autogestione alla carenza di strumenti e materiali.
Tornando ai libri di testo, già nell’indagine pubblicata nel 2010 da Irene Biemmi, su un campione di libri
di lettura per la classe quarta della scuola primaria, emergeva un’importante assenza femminile ancor più
marcata se le storie erano ambientate nel passato, considerata la quale si sosteneva: “Trascurando di
rappresentare le donne in epoca passata, i testi scolastici forniscono una visione distante della realtà e
della storia: il mondo del passato appare popolato da soli uomini, le donne sembrano non esistere”.
Se il femminile era parzialmente rappresentato al presente, lo era ancor meno al passato: la conquista
dello “spazio” sui manuali si configurava, allora come oggi, lenta e faticosa.
Numerosi stimoli mi hanno condotta a voler intraprendere un’indagine specifica sui libri di testo di
storia[2]. In primo luogo il fatto di trovarmi a operare in due contesti – quello scolastico, nello specifico
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