Infolampo: Ceta – costi
Il Ceta tutela le grandi multinazionali, non le nostre
eccellenze
Presidio a Roma, in piazza Montecitorio, per protestare contro l’accelerazione del Parlamento in vista
della ratifica dell’accordo economico e commerciale tra Ue e Canada. Durante (Cgil): “Può avere un
effetto devastante sui prodotti e sul lavoro italiani
di Marco Togna
Martedì 27 giugno la commissione Esteri del Senato ha dato il primo via libera al disegno di legge che
ratifica il Comprehensive economic and trade agreement
(Ceta), l’accordo economico e commerciale tra Unione
europea e Canada. Il Ceta, già approvato
dall’Europarlamento, deve ottenere l’ok anche dai singoli
parlamenti degli Stati della Ue. Il ddl ora passerà all’esame
dell’aula. Il trattato è fortemente contestato dalla Cgil e da
numerose altre associazioni, che hanno organizzato per
oggi (mercoledì 5 luglio) un presidio a Roma, con
appuntamento alle ore 9.30 in piazza Montecitorio. Ne
abbiamo parlato con Fausto Durante, responsabile delle
Politiche internazionali ed europee della Cgil nazionale.
Rassegna Il Ceta deve essere ratificato da ogni singolo
Stato. Come si ste comportando l’Italia?
Durante Il nostro Parlamento, unico tra i parlamenti dei
grandi paesi dell’Unione europea, sta accelerando la sua
decisione sul trattato. Un’accelerazione davvero
incomprensibile, soprattutto incurante delle osservazioni
contrarie alla ratifica fatte nei giorni scorsi in sede di audizione. Il percorso di ratifica andava
accompagnato da una consultazione approfondita, dall’ascolto non superficiale delle parti sociali, delle
organizzazioni della società civile e dei portatori d’interessi. Con il presidio odierno chiediamo al
Parlamento di mettere in piedi un processo partecipativo non frettoloso né immediato.
Rassegna Il trattato suscita da più parti grande opposizione. Qual è la prima preoccupazione della Cgil?
Durante Il Ceta può avere un impatto devastante sulla filiera italiana dell’agroindustria, del cibo di
qualità, delle nostre eccellenze alimentari e dei nostri prodotti tipici. Il trattato abbatte le barriere tariffarie
e non, deregolamenta i disciplinari di produzione e gli standard di sicurezza e di precauzione, consente
l’uso di prodotti proibiti in Europa ma permessi oltreoceano, come ogm, antibiotici, ormoni della crescita,
glifosato. Tutto questo potrebbe provocare enormi problemi riguardo la salubrità, la qualità e la sicurezza
delle produzioni alimentari.
Rassegna Un’altra osservazione ricorrente è che il Ceta potrebbe favorire la contraffazione delle
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Pensioni: incontro interlocutorio,
chiediamo risposte concrete
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I costi dei tagli
La spesa dello Stato continua a salire ma ci si vanta dei 30 miliardi risparmiati riducendo il personale.
Ma quanto è pesato in termini di crescita economica il furore anti-impiego pubblico, con il doppio stop
alle assunzioni e agli aumenti contrattuali?
di Bianca Di Giovanni
“Non mollare la presa”. Questo è stato l’invito lanciato da Yoram Gutgeld all’attuale e al futuro governo,
in occasione della presentazione della Relazione sulla Spending Review alla Camera dei deputati. In
effetti dai numeri circolati la presa somiglia a un cappio a doppia mandata: quasi 30 miliardi di minori
spese solo nel 2017. Con una progressione che arriverà a quota 31 miliardi e mezzo l’anno prossimo.
Cifre che hanno provocato l’immediata reazione di Pier Carlo Padoan contro i mass media. “Mi auguro
che non si legga più che la spending review non è stata fatta o è stata fatta male”, ha detto il ministro. E
anche qualche stoccatina ai politici (ovvero i non tecnici come lui): “Si crea uno spazio fiscale
importante, poi starà ai policymaker usarlo in modo efficiente e efficace”. Come dire: non è colpa mia se
alla fine, taglia di qua e sforbicia di là, la spesa pubblica continua a salire per via della miriade di bonus
che si vogliono finanziare. Un “non detto” che è stato esplicitato qualche giorno dopo dalla Corte dei
Conti. Per i giudici contabili, infatti, le misure non hanno prodotto una riduzione complessiva dei livelli
di spesa.
Ma torniamo ai 30 miliardi risparmiati. L’Italia è diventata virtuosa, dunque? Quei 30 miliardi sono
davvero il risultato di una analisi che ha individuato sprechi inutili? Somme che prima venivano
sperperate e oggi potrebbero essere saggiamente accantonate, se non ci fosse la voglia di bonus in giro? A
guardar bene le cose non stanno esattamente così.
Al netto dell’operazione Consip, cioè l’accentramento degli acquisti di beni e servizi, il dato saliente della
spending review è stata la riduzione del personale pubblico attraverso il blocco del turn over. Un taglio
che in alcuni ministeri ha significato il 7% in meno del personale. Quegli stessi ministeri che saranno
chiamati a un ulteriore risparmio di spesa da un miliardo di euro l’anno prossimo, secondo quanto ha
stabilito l’ultimo Def. Complessivamente nel triennio 2013-2016 sono state eliminate 84mila unità. Quasi
30mila opportunità di lavoro in meno all’anno: oltre 2mila al mese. Meno personale significa spesso uffici
sguarniti. In uno Stato che si affanna a rincorrere le richieste di cittadini e imprese, con procedure spesso
complesse e farraginose, cancellare i dipendenti spesso significa creare ulteriori strozzature, certamente
poco vantaggiose per il sistema-Italia. Ma il punto dolente è un altro: immaginiamo cosa significa
davvero chiudere o ridurre drasticamente un canale di accesso al lavoro come quello pubblico. Una volta
o l’altra si dovrà pur calcolare quanto è costato, in termini di crescita economica, questo furore anti-
impiego pubblico, che ha assunto il doppio volto dello stop agli ingressi e lo stop agli aumenti
contrattuali. Il binomio meno spesa-meno tasse, si è tradotto a volte in meno lavoro- stesse tasse.
Circa la metà dei tagli di spesa contabilizzati per quest’anno derivano dalle disposizioni della finanziaria
per il 2015, la prima dell’era Renzi, quella, per intenderci, che ha dovuto reperire circa 10 miliardi per
finanziare il bonus da 80 euro per i dipendenti a basso reddito. Un primo segnale di redistribuzione del
reddito, anche se limitato a una fascia molto ristretta di lavoratori, che escludeva gli incapienti. Sul fronte
dei risparmi, è quella legge ha chiesto pesanti sacrifici agli enti locali, con circa 8 miliardi di minori spese
per Regioni, Province e Comuni. Sappiamo che quando diciamo Regioni intendiamo Sanità, quando
indichiamo Comuni intendiamo assistenza e asili nido, quando diciamo Province oggi entriamo in una
fitta nebulosa. Proprio quella legge di Stabilità, infatti, è anche quella che ha avviato la “rivoluzione delle
Province”, cancellandone sulla carta compiti, funzioni e relativi finanziamenti e trasferendone il personale
ad altri incarichi. Pianta organica tagliata per 20mila unità, personale messo in mobilità con stipendio
ridotto, poderosi “buchi” nelle finzioni degli enti locali. Ebbene, quell’operazione si è tradotta alla fine in
un risparmio di qualche centinaio di milioni (ne valeva davvero la pena?), mentre il Paese reale ancora
cerca un difficile equilibrio tra amministrazione Regionale e comunale. Tutto in nome di una austerità,
che un giorno si invoca e il giorno dopo si attacca.
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