Infolampo: assunzioni – schiavitù
Solo un’assunzione su 4 è a tempo indeterminato
Tra gennaio e maggio 2017 l’istituto registra un’ulteriore riduzione dei rapporti stabili. Il calo è
iniziato da quando è scaduto l’esonero contributivo. Boom del lavoro a chiamata. Aumenta il
peso delle buste paga, ma non per tutti
Da quando è scaduto l’esonero contributivo, il contratto a tempo indeterminato è sempre più una
chimera per i lavoratori italiani. Lo certifica anche l’Inps. Tra gennaio e maggio del 2017 si è
infatti “registrata un’ulteriore riduzione dell’incidenza dei
contratti a tempo indeterminato sul totale delle assunzioni
(25,9%) rispetto ai picchi raggiunti nel 2015 quando era in
vigore l’esonero contributivo triennale per i contratti a
tempo indeterminato” e per lo stesso periodo si registrava
un 40,7% di nuovi contratti a tempo indeterminato. Così
l’Osservatorio dell’istituto di previdenza sul precariato,
aggiornato ai cinque mesi del 2017. Praticamente, quindi,
solo un’assunzione su quattro risulta stabile.
Guardando al dato “annualizzato”, calcolato dall’Inps, si
rileva poi la spinta dei rapporti a tempo in cui ricadono
anche, spiega l’istituto, i contratti stagionali e i contratti di
somministrazione. In generale per l’Inps “queste tendenze sono in linea con le dinamiche
osservate nei mesi precedenti e attestano il proseguimento della fase di ripresa occupazionale”.
Sempre nell’Osservatorio sul precariato, l’Inps fa notare, oltre all’impennata del lavoro a chiamata,
“l’incremento dei contratti di somministrazione a tempo determinato (+14,6%)”, che può, anche
questo, “essere messo in relazione alla necessità delle imprese di individuare strumenti
contrattuali sostitutivi dei voucher, cancellati dal legislatore a partire dalla metà dello scorso mese
di marzo”.
Passando a considerare le cessazioni di rapporti di lavoro, “nel complesso – si spiega – sono state
2.007.000, in aumento rispetto all’anno precedente (+11,2%): a crescere sono soprattutto le
cessazioni di rapporti a termine (+18,4%) mentre quelle di rapporti a tempo indeterminato sono
leggermente in diminuzione (-1,3%)”.
Intanto migliora il peso della buste paga, ma “per le assunzioni a tempo indeterminato”: da
gennaio a maggio 2017 si registra infatti “una riduzione della quota di retribuzioni inferiori a
1.750 euro (55,0% contro 57,9% di gennaio-maggio 2016).
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Pensioni, il 27 luglio riparte il
confronto governo-sindacati.
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Processo Sabr, in Italia esiste la schiavitù
La sentenza dello scorso 13 luglio che ha riconosciuto il reato di riduzione in schiavitù a carico di alcuni
imprenditori agricoli è il punto di arrivo di un cammino iniziato nel 2011, con lo sciopero dei braccianti
alloggiati all’interno della masseria Boncuri a Nardò
di Antonio Ciniero
In Italia ci sono uomini ridotti in schiavitù. Parte del lavoro agricolo stagionale del nostro paese, quello
che fa crescere il nostro PIL, che permette l’esportazione e il consumo dei prodotti del made in Italy sulle
tavole nostre e su quelle di mezza Europa, si basa anche su un lavoro “schiavile”. A sostenerlo non è uno
dei tanti allarmi lanciati da qualche inchiesta giornalistica, non è la presa di posizione di una ONG o sigla
sindacale. La riduzione in schiavitù è stata contestata come reato a 11 imputati dalla sentenza pronunciata
il 13 luglio scorso dai giudici della Corte di Assise del Tribunale di Lecce nel processo nato dall’inchiesta
Sabr, dal nome di uno dei caporali che organizzava buona parte del lavoro agricolo stagionale nel
territorio di Nardò, in provincia di Lecce.
Lo sfruttamento lavorativo nel territorio di Nardò non è certo una novità: si registra ininterrottamente da
oltre vent’anni, con un’intensità che nel tempo ha continuato a crescere, a seguito della modificazione di
diversi fattori che hanno a che vedere tanto con la struttura produttiva, con le modificazioni delle colture
agricole[1], quanto con elementi socio-economici più generali, vale a dire con le filiere produttive e
distributive del settore, la crisi economica, che ha spinto verso l’agricoltura soggetti prima impiegati nel
settore industriale e in quello dei servizi nelle città del centro-nord Italia, e le ricadute sociali delle
politiche migratorie, con la conseguente riconfigurazione delle presenze migranti del territorio. Nelle
campagne di Nardò, come nel resto del paese, è aumento in maniera consistente il numero di richiedenti
asilo, rifugiati e titolari di altre forme di protezione – alcuni ancora formalmente nel sistema di prima o
seconda accoglienza italiana, altri che vi sono comunque transitati – impiegati nella raccolta stagionale.
Era un rifugiato politico anche Abdullah Mohamed, morto il 20 luglio del 2015, a soli 47 anni, mentre
raccoglieva pomodori in un campo di proprietà di uno degli imputati nel processo Sabr, ora condannati in
primo grado.
La sentenza dello scorso 13 luglio è, per così dire, il punto di arrivo di un cammino iniziato sei anni fa,
con lo sciopero dei braccianti alloggiati all’interno della masseria Boncuri, allora gestita da due realtà
associative, Finis Terrae e le Brigate di Solidarietà Attiva.
Lo sciopero era scoppiato il 29 luglio del 2011, quando un gruppo di braccianti decise di non assecondare
la richiesta del proprio caporale che chiedeva loro di prestare lavoro aggiuntivo senza però ricevere alcun
incremento retributivo. Da quel 29 luglio furono lanciate dai lavoratori una serie di mobilitazioni alle
quali parteciparono sin da subito le diverse associazioni antirazziste e di volontariato del territorio e la
CGIL. Mobilitazioni importanti quelle iniziate nel luglio del 2011, indette e portate avanti dai lavoratori
autorganizzati (molti dei partecipanti erano lavoratori licenziati dalle fabbriche del nord-est con
esperienze sindacali alle spalle). Le associazioni, così come pure il sindacato, durante tutta la fase dello
sciopero, si limitarono ad attività di supporto (come la raccolta di viveri e denaro da destinare alla cassa di
resistenza che viene istituita per i braccianti in sciopero) o, nel caso della CGIL, all’organizzazione di
alcuni presidi e incontri in Prefettura per permettere il confronto tra i lavoratori, le parti sociali e le
istituzioni locali.
Nello sciopero del 2011, il lavoro in quanto tale assunse una assoluta centralità. Chi scioperava lo faceva
in quanto lavoratore: rinunciava al suo salario non per rivendicare generici diritti, ma specificatamente
perché pretendeva il rispetto dei propri diritti sindacali. Tra le principali rivendicazioni portate avanti: il
superamento del sistema del caporalato e la richiesta di trattare direttamente con i datori di lavoro,
l’innalzamento dei livelli salariali, il rifiuto del lavoro a cottimo, la regolarizzazione del rapporto
lavorativo, l’emersione dal lavoro nero e il riconoscimento di tutele e garanzie previdenziali.
Forse, a giudicare da quello che è successo nel corso di questi ultimi sei anni, la conquista principale di
quelle mobilitazioni è stata l’adozione da parte del governo italiano del decreto-legge 138/2011 che
all’articolo 12 introduce, per la prima volta nell’ordinamento giuridico del nostro paese, la pena della
reclusione per chi effettua illegalmente intermediazione lavorativa. È grazie a quel decreto legge che si è
potuto istruire il processo che oggi sancisce che a Nardò esiste la schiavitù. Non è di secondaria
importanza ricordare anche che al processo decideranno di costituirsi come parte civile solo alcuni
braccianti, l’associazione Finis Terrae, la CGIL, la Regione Puglia e non il Comune di Nardò, allora
guidato dal Sindaco Marcello Risi, che decise apertamente di non schierarsi dalla parte dei lavoratori
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