Infolampo: Ceta – follia
In Senato approda il Ceta. Cgil: no alla ratifica
Il trattato è entrato in vigore (in via provvisoria) il 21 settembre, ma ora serve l’ok del Parlamento.
“L’accordo commerciale tra Ue e Canada avrà un impatto economico, sociale e ambientale pesante sul
nostro Paese”, spiega il segretario Susanna Camusso
Approda oggi (martedì 26 settembre) al Senato il disegno di legge che ratifica il Comprehensive
economic and trade agreement (Ceta), l’accordo economico e
commerciale tra Unione Europea e Canada. Il trattato, firmato il
30 ottobre 2016 e approvato dall’Europarlamento il 15 febbraio
scorso, è entrato in vigore – anche se in via provvisoria –
giovedì 21 settembre. Ma per diventare definitivo deve ottenere
l’ok anche dai singoli parlamenti degli Stati della Ue, tra cui
ovviamente l’Italia.
“L’accordo Ceta avrà un impatto economico, sociale e
ambientale pesante sul nostro Paese” spiega il segretario
generale della Cgil Susanna Camusso, rimarcando che in esso
“gli standard vigenti in Europa in materia di diritti dei
lavoratori, sicurezza alimentare e ‘principio di precauzione’,
rispetto dell’ambiente e garanzia dei servizi pubblici, saranno
nei fatti sacrificati alla libertà di commercio”. Da qui la
richiesta a governo e forze politiche “di non procedere alla
ratifica dell’accordo e di promuovere i necessari
approfondimenti, attendendo la verifica del suo funzionamento
provvisorio, che siamo sicuri suggerirà di respingere questo
trattato per contribuire a un commercio effettivamente equo e sostenibile”.
Il trattato di libero scambio, affermano i suoi sostenitori, eliminerà il 98 per cento dei dazi sui prodotti
europei esportati in Canada, consentendo – calcola la Commissione europea – un risparmio per le aziende
pari a 590 milioni di euro l’anno. “Con il Ceta – argomenta il ministro dello Sviluppo economico Carlo
Calenda – verranno rimosse alcune importanti barriere non tariffarie, garantita l’apertura del mercato degli
appalti pubblici alle aziende europee così come l’accesso al mercato dei servizi, assicurata la tutela della
proprietà intellettuale secondo gli standard più avanzati e, per la prima volta in un sistema anglosassone,
avremo il riconoscimento di 171 indicazioni geografiche europee, di cui 41 italiane”.
Una posizione fortemente contestata dalla Cgil, che ricorda come “gli accordi di libero scambio – spiega
il segretario generale Susanna Camusso – non debbano più rispondere ai bisogni e alle pressioni delle
lobby economico-finanziarie e delle grandi imprese, ma essere effettivamente al servizio dell’interesse
generale e della qualità dello sviluppo”.
Il Comprehensive economic and trade agreement, dunque, è un accordo “che garantisce alle grandi
imprese inaccettabili privilegi, mentre non offre alcuna garanzia per i lavoratori, per i consumatori e per i
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Sanità: Cgil, Cisl e Uil a
Lorenzin, confronto non più
rinviabile, ci convochi
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Don e Kim sbriciolano la teoria atomica del folle
La follia – quella molto specifica forma di follia simulata che va sotto il nome di “madman theory”, la
teoria del pazzo – è, in pratica da sempre, parte integrante della storia della deterrenza atomica. Ovvero:
di quello stato di perenne e reciproco ricatto che s’ingegna di prevenire la follia (apocalitticamente
autentica, questa) d’una guerra nucleare.
di Massimo Cavallini
Richard Nixon – vanno in questi giorni ricordando gli esperti in materia – fu forse il più brillante
interprete di questa piuttosto sinistra ma indispensabile forma d’arte politica. E proprio così – come “la
capacità di manipolare il rischio di guerra compartito” – l’ha brillantemente spiegata, in una serie di studi,
Thomas Schelling, premio Nobel per l’economia nel 2005 che di quest’arte (o, più precisamente, dei
modelli matematici che, in forma di “game theory”, illustrano “i rapporti di conflitto e collaborazione tra
soggetti intelligenti e razionali”) è considerato il vero padre.
In termini più prosaici, di questo si tratta: di convincere “razionalmente” la controparte del fatto che tu sei
pazzo quanto basta per scatenare una guerra nucleare. Il tutto, con l’obiettivo di riaccendere dall’altro lato
della barricata la razionalissima paura della MAD (Mutually Assured Destruction), in questo modo
spostando l’ago della bilancia, pericolosamente inclinatosi dal lato del conflitto, verso quello della
collaborazione o, quantomeno, d’una più rassicurante situazione di stallo.
Da molti definita “l’equilibrio della paura”, questa paradossale formula ha funzionato, con alti e bassi,
lungo tutti gli anni della Guerra Fredda. Ed è stata una presenza fissa anche lungo quel molto specifico,
assai delicato e più che mai attivo tratto del fronte chiamato Corea, laddove il conflitto – o più
esattamente l’armistizio che, sottoscritto il 27 luglio del 1953 lungo il 38esimo parallelo, mai ha potuto
tradursi in un trattato di pace – vede impegnate una superpotenza che di armi nucleari ne ha a iosa, ed un
piccolo paese che, a sua volta, dal 1963, anno in cui gli Usa unilateralmente decisero di piazzare un
sistema missilistico nucleare nella Corea del Sud, considera l’acquisizione della bomba atomica una
condizione, anzi, “la” condizione della propria sopravvivenza. Questo paese è, ovviamente la Nord Corea,
la nazione che, nel nome del comunismo e, soprattutto, d’una atavica, medievale vocazione al più
assoluto isolamento (il “regno eremita” si chiamava l’antica Corea) è oggi il più puro e tenebroso esempio
di quel “dispotismo orientale” di cui, in tempi e modi diversi, discettarono Montesquieu, Karl Marx e
Karl August Wittfogel.
Anche in queste latitudini ed in queste particolarissime circostanze, la “madman theory” aveva, fino a
ieri, funzionato. E sul finire del secolo scorso, durante il secondo mandato di Bill Clinton, aveva
addirittura portato ad un accordo – aiuti economici in cambio d’un congelamento del programma nucleare
– accordo che era stato da molti salutato come il possibile preludio di quel trattato di pace (la “vera” fine
della guerra di Corea) che per oltre un quarantennio le parti in causa avevano invano perseguito. Questa
prospettiva rapidamente svanì, com’è noto, sotto la presidenza di George W. Bush, che interruppe ogni
contatto bilaterale sostituendolo con un negoziato a sei (le due Coree più Stati Uniti, Cina, Russia e
Giappone) che non ha prodotto alcun risultato. Fino all’anno 2006, quando, nel mese d’ottobre, Kim Jong
Il, primo erede del fondatore della stirpe, il deificato Kim Il Sung, gioiosamente gelò ogni speranza di
pace annunciando al mondo il primo vero test nucleare coreano. La marcia della Corea del Nord verso “la
bomba” proseguiva, ma non abbandonava nonostante tutto i binari della paradossale razionalità della
“teoria del pazzo”, continuando al contrario ad alimentare la convinzione che tanta follia non fosse, a
conti fatti, che uno stratagemma per acquisire vantaggi all’interno d’una “soluzione diplomatica” della
quale nessuno era, allo stato delle cose, in grado d’intravvedere i termini, ma che tutti, al di là della della
retorica, riconoscevano essere l’unica via razionalmente perseguibile.
Oggi non più. E questo per la semplice ragione che, della “madman theory”, sembra esser venuto meno,
per così dire, il più essenziale materiale umano. Vale a dire: l’intelligenza e la razionalità dei soggetti
impegnati nel “gioco” – la simulazione di follia, per l’appunto – studiato da Thomas Schelling. “Per
quanto razionali siano i due avversari – aveva infatti scritto l’economista – è possibile che essi facciano a
gara per sembrare il più possibile irrazionali, irruenti e testardi”. Ma che accade se i due avversari sono
davvero irrazionali, irruenti e testardi? Questa è la domanda – un’angosciosa domanda senza risposta -che
percorre oggi il mondo di fronte al dipanarsi della crisi coreana.
Che sta accadendo? Che cosa è cambiato rispetto al più recente passato? Intanto è cambiato un fatto:
quella che, fino a non molti mesi fa, era soltanto un’aspirazione dalla Corea del Nord maniacalmente
perseguita – il possesso d’una bomba in grado di colpire, via missile intercontinentale, il territorio nemico
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