Infoalmpo: antimafia – welfare
Codice Antimafia: storia di una legge nata da una
proposta di iniziativa popolare
Venticinque anni dopo le stragi di Capaci e di via d’Amelio e 35 anni dopo l’approvazione della legge
Rognoni-La Torre, ieri la Camera ha approvato il testo in via definitiva.
Un percorso iniziato quattro anni fa con la raccolta firme promossa della Cgil attraverso il coinvolgimento
di un vasto schieramento di associazioni. Lucia Rossi (Spi Cgil):
“Una vittoria per il Paese”.
Dopo l’approvazione avvenuta ieri alla Camera con 259 voti
favorevoli e 107 contrari, il Codice antimafia è diventato legge .
Oltre a importanti misure in materia di corruzione e di contrasto
alle mafie, la legge recepisce e ingloba la proposta di legge di
iniziativa popolare avanzata dalla Cgil, insieme a diverse altre
associazioni, nell’ambito della campagna Io riattivo il lavoro.
Il testo approvato contiene misure finalizzate a rafforzare il
ruolo dell’Agenzia nazionale dei beni sequestrati e confiscati
ma, soprattutto, interviene con una strumentazione nuova sulla
tutela del lavoro nelle aziende sequestrate e confiscate alla
criminalità organizzata. Cambia anche il criterio per la scelta
degli amministratori giudiziari dei beni confiscati, che non
potranno essere parenti, conviventi e “commensali abituali” del
magistrato che stabilisce la confisca.
La nuova legge introduce il controllo giudiziario delle aziende a
rischio di infiltrazioni mafiose, previsto per un periodo da uno a
tre anni e la creazione di un fondo da 10 milioni di euro l’anno
per aiutare la ripresa economica delle imprese sequestrate e
salvaguardare i posti di lavoro. Viene infine riorganizzata
l’Agenzia nazionale per i beni confiscati: resterà sotto la vigilanza del ministero dell’Interno e avrà sede a
Roma, ci lavoreranno 200 persone tra cui un direttore che amministrerà i beni dopo la confisca.
«L’approvazione del nuovo Codice Antimafia rappresenta una vittoria per il Paese – ha affermato Lucia
Rossi, responsabile nazionale, per lo Spi Cgil, delle politiche della legalità – perché nasce da una
iniziativa che ha visto impegnate, giorno dopo giorno, per oltre quattro anni, oltre alla Cgil, anche Cisl,
Uil e tante associazioni, soggetti che rappresentano di milioni di persone». «Lo Spi – continua Rossi –
che ogni anno è impegnato con i suoi volontari nelle attività svolte all’interno di tanti beni confiscati ai
mafiosi non può che condividere i giudizio che l’intera Cgil dà sull’approvazione della legge».
In una nota congiunta, Acli, Arci, Avviso Pubblico, Centro studi Pio La Torre, Cgil, Cisl, Uil,
Legambiente, Libera. Associazioni, Nomi e Numeri contro le mafie, Sos Impresa ricordano che il testo
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Federico Caffè e la crisi del welfare state
A dieci anni dall’esplosione della Grande Crisi quali sono gli spazi possibili per un intervento pubblico.
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Di Michele Cangiani
Federico Caffè, trent’anni fa, individuò le tendenze della trasformazione neoliberale, ma non poteva
immaginare quanto oltre, nel tempo e in profondità, essa sarebbe andata. Solo in seguito si è dovuto
prendere atto che il “pensiero unico” (Ramonet 1995) aveva tolto l’ossigeno all’auspicabile
controtendenza basata sulla “public cognizance”.
Le vicende finanziarie – della finanza privata, ma anche di quella pubblica (dalle manovre sui tassi
d’interesse ai debiti spesso contratti per favorire affari privati o soccorrere banche in difficoltà) – hanno
continuato a provocare cambiamenti reali della struttura economica e sociale fino ai nostri giorni,
approfittando anche della crisi, iniziata nel 2007 proprio come crisi finanziaria. Caffè considerava le
“sovrastrutture finanziarie”, Borsa compresa, piuttosto come causa di “inquinamento finanziario” e di
costi sociali che come metodo efficiente di finanziamento delle imprese (Caffè 1971, p. 671). Questo
atteggiamento ha reso, in seguito, più acuta e radicale la sua critica del dominio della grande finanza
internazionale nell’epoca neoliberista. Egli sottolinea il problema dell’aumento dell’attività finanziaria,
del rischio insito nelle sue distorsioni e anche semplicemente nel gonfiarsi del credito. Le rendite –
riguardo alle quali egli richiama la denuncia keynesiana di “inefficienza sociale” – gli appaiono
connaturate con “la struttura oligopolistica del sistema creditizio-finanziario” (Caffè 2014, pp. 83-84).
I paesi periferici non petroliferi, indotti a indebitarsi rovinosamente, hanno subito una crisi senza
precedenti, come effetto delle misure di ‘aggiustamento strutturale’ imposte dal FMI negli anni Ottanta e,
in generale, di “un’economia ‘usuraia’” (ibid., pp. 86-88). La stessa politica (la cosiddetta austerità e le
cosiddette riforme strutturali) è continuata negli anni Novanta, con gli stessi disastrosi risultati. Intanto gli
USA, con il Presidente Clinton, continuavano a indicare la rotta, riducendo la spesa per il welfare e
portando a termine la de-regolamentazione delle attività finanziarie. Il piano per salvare il Messico dal
fallimento alla fine del 1994 fu elaborato da FMI e USA per proteggere gli investitori stranieri, in
maggioranza nordamericani, ma comportò la limitazione della sovranità del Messico, con il controllo del
suo bilancio e un’ipoteca sull’esportazione del suo petrolio. I paesi del Sudest asiatico e la Corea furono
colpiti dalla crisi finanziaria del 1997 e dalla conseguente recessione. La pressione del debito estero
insieme con la decisione di stabilire un cambio alla pari tra peso e dollaro portarono alla rovina
l’economia argentina, predisponendo la svalutazione e il saccheggio delle sue risorse, in particolare delle
attività possedute dallo stato. Il debito e il cambio alla pari fra le rispettive monete erano stati decisivi nel
processo di riunificazione del 1990 delle due Germanie – ovvero di annessione dell’una da parte dell’altra
– ed ebbero, per la ex DDR, conseguenze simili a quelle subite in seguito dall’Argentina.
Questi precedenti avrebbero dovuto suscitare almeno qualche dubbio sul progetto di unificazione europea
e in particolare sulla moneta unica. In un articolo del 1985, Caffè, facendo anche riferimento ai pareri di
diversi economisti, aveva indicato alcuni punti critici, tanto fondamentali quanto, purtroppo, sottovalutati.
L’integrazione europea avrebbe dovuto, a suo avviso, adottare “idonee e coordinate misure di politica
economica” (Caffè 2014, p. 146) contro la disoccupazione e la disuguaglianza, controllare la domanda
globale e amministrare l’offerta complessiva, disciplinare i prezzi e i consumi energetici. Inoltre, egli
osserva, se ogni paese aderente alla zona di libero scambio potesse decidere la propria tariffa nei confronti
di paesi terzi, sarebbe più facile limitare il dominio di uno degli stati membri sugli altri. Il problema è, in
effetti, se si realizzerà “un’intesa tra uguali o un rapporto tra potenze egemoni e potenze soggette” (ibid.,
p. 150). Ora sappiamo che anche l’unione monetaria, con le norme che la regolano, ha contribuito al
prevalere della seconda fra queste due ipotesi. Nell’articolo di Caffè viene rilevata la tendenza verso
un’Europa “strumentalizzata in funzione di remora all’introduzione di riforme essenziali alle strutture
differenziali dei paesi membri”, contraria al permanere di “settori pubblici dell’economia”, soggetta al
modello neoliberista e incapace di assumere “un atteggiamento coerente rispetto alle società
multinazionali”, le quali, anzi, contano di rafforzare il proprio potere monopolistico, anche rispetto ai
governi (ibid., pp. 152, 146 e 149).
La tendenza dalla quale Caffè metteva in guardia è divenuta più forte e incontrastata. La sinergia tra le
norme, e soprattutto le pratiche, dell’UE e la trasformazione neoliberista è profonda ed efficace. La
moneta è stata resa autonoma dallo stato, sia pure non nella forma più estrema della “libera concorrenza
tra le banche private di emissione”, secondo la formula che Caffè (2014, p. 56) cita dal saggio
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