Infolampo: Lavoro – digitale
Il corto circuito tra giovani e lavoro
Nel nostro Paese i ragazzi che non studiano, lavorano o si formano sono oltre due milioni, il 10 per cento
in più della media europea. Il fallimento di Garanzia Giovani (ha intercettato solo chi ne aveva meno
bisogno) e dell’alternanza scuola-lavoro
di Stefano Iucci
Nel paese dei giovani “senza”. Senza scuola, senza formazione, senza lavoro. È la fotografia impietosa
scattata dall’ultimo Rapporto dell’Istituto Toniolo che conferma un dato drammatico. In Italia i Neet – i
giovani, cioè, che sostanzialmente “non fanno nulla” – sono 2,2
milioni, ben il 24 per cento dei coetanei. Una percentuale che
ancora una volta ci pone in coda a quasi tutti i paesi europei,
visto che nel continente questo contingente è al 14 per cento,
addirittura 10 punti sotto.
Tanto rumore per nulla: Garanzia Giovani, tirocini, alternanza
scuola-lavoro, riforma dei servizi all’impiego – strumenti e
misure sui quali negli ultimi anni si è posta una grande enfasi –
non hanno dunque smosso neanche una virgola. “Siamo tra i
paesi che meno valorizzano i propri giovani” commenta
sconsolato Alessandro Rosina, sociologo e tra i massimi esperti
del tema. “Perlopiù in Italia i giovani vengono utilizzati come
manodopera da pagare il meno possibile, anziché come una
risorsa che può diventare una leva per la competitività delle
imprese e dell’intero sistema economico”. Rosina mette sotto
accusa, in particolare, la transizione scuola-lavoro che è molto
debole “già in partenza, ovvero nella scuola, da cui troppi
giovani escono con fragilità e vulnerabilità rispetto a ciò che è
veramente spendibile nel mondo del lavoro”. Se a questo
aggiungiamo la pochezza delle nostre politiche attive del lavoro, per il sociologo il risultato è che “molti
ragazzi finiscono per perdersi in questo percorso di transizione e non riescono poi a trovare una
collocazione adeguata nel sistema produttivo”.
Garanzia Giovani: un’occasione mancata
Su questa misura europea erano state riposte parecchie speranze. Il programma prevede la presa in carico
da parte dei servizi per l’impiego dei Neet tra i 15 e i 29 anni a cui vanno offerti, entro un lasso di tempo
certo, percorsi personalizzati che prevedono, tra gli altri, tirocini, apprendistato, sostegno
all’autoimprenditorialità, bonus occupazionali. Ma i dati non sono incoraggianti, sia dal punto di vista
quantitativo (in concreto solo a mezzo milione di persone è stato offerto un percorso) sia dal punto di
vista qualitativo: il 70 per cento delle risorse disponibili viene impiegato per finanziare tirocini in aziende
(la misura largamente più gettonata), spesso di basso contenuto formativo, quando non si tratta di vera e
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Parola d’ordine: buon
lavoro
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Il ruolo dello Stato al tempo dell’economia digitale
Con le attuali trasformazioni tecnologiche – digitalizzazione, automazione, capitalismo delle
‘piattaforme’ – la funzione dello Stato cambia radicalmente: da regolatore del lavoro, l’intervento
pubblico diventa il presupposto dell’esistenza stessa del lavoro. Socializzare la ricchezza prodotta è
l’unica strada per stabilire un equilibrio tra produzione e consumo ed evitare catastrofi sociali
infinitamente peggiori di quelle già […]
di Mario Dogliani
Ecco, una voce squillante ci ingiunge di ritornare in noi stessi, riempie di figure le oscurità in cui ci
aggiravamo, i fantasmi fuggono lontano … (En clara vox redarguit …)
1.- La politica e la cultura italiana avrebbero bisogno di una voce che riempia di figure l’oscurità
indistinta e scacci i fantasmi.
Anche molti tra coloro che cercavano di comprendere con spirito libero la verità delle sfide che il mondo
di oggi propone erano – fino a non molto tempo fa – spaesati, balbettavano, fuori di sé, discorsi che non
erano i loro, non riuscivano a chiudere il cerchio tra i dati della realtà e le proposte politiche se non
compiendo un salto fideistico in un qualcosa che in futuro sarebbe dovuto intervenire (la “ripresa” da
“agganciare”, un “nuovo capitale umano” che avrebbe incontrato “una nuova domanda di lavoro prodotta
dall’automazione stessa” …). Oppure evocavano politiche di giustizia affidate più ai sentimenti che al
realismo (e dunque cieche nei confronti dei duri vincoli che lo stato delle cose impone). In questo clima
una parte della sinistra credeva di potersi dimostrare utile perché – sulla base della sua tradizione,
orientata allo sviluppo delle forze produttive e alla modernizzazione – pensava di essere più brava (e
dunque anche più equilibrata e saggia) nell’applicare le ricette del neoliberismo.
Il tatcheriano «non c’è altra soluzione» bloccava le menti, e rendeva (non plausibili), ma spendibili nel
discorso pubblico evidenti sciocchezze, come la prospettiva di superare la disoccupazione e il precariato
di intere generazioni con le start-up o similia. O come le lamentele sulla mancanza di alta formazione
adeguata, contraddetta dalle migliaia di giovani altamente formati che emigrano ogni anno, e che dunque
a qualcosa sono adeguati. L’elenco delle sciocchezze e dei pannicelli caldi evocati per affrontare la crisi
potrebbe continuare all’infinito.
Questo clima di mancanza di verità – nello scrutare il futuro e nel giudicare il passato, che nulla ha a che
fare con l’autolesionismo -, questo blocco della critica (è bloccata anche quella che non lesina parole, ma
che si arresta all’occorrismo o a qualche gioco di parole fideistico) produce un contesto malato in cui
hanno libero corso le menzogne, che trasformano il conflitto politico in un gioco a chi le spara più grosse.
Sul «reddito d’inclusione (Rei)» – per l’introduzione del quale buona parte del merito va riconosciuto
all’Alleanza contro la povertà – si è abbattuto il polverone del «reddito di cittadinanza». E’ ovvio che è
troppo facile dire che 780 euro a tutti sono meglio di 485 a qualcuno; e che è bellissimo avere pensioni
minime a mille euro, e che sarebbe un paradiso pagare una tassa sui redditi solo del 15%, senza spiegare
come si coprirà il buco di 40 miliardi di mancati introiti per lo Stato. Ma questa è purtroppo la condizione
del dibattito pubblico in Italia.
2.- Oggi sta venendo a maturazione la consapevolezza che le politichette non servono a niente: sono solo
frastuono. Nulla di nuovo, ma sta acquisendo consensi una prospettiva che fino a non molto tempo fa era
considerata – per via del fideismo di cui si è detto – apocalittica. Il discorso sulle disuguaglianze,
moralmente e politicamente inaccettabili ed economicamente dannose (FMI) si è diffuso per la forza e
l’evidenza delle cose (e per un buon lavoro intellettuale che è stato svolto), e ha innescato una
trasformazione molecolare (direbbe Gramsci) in alcuni settori delle scienze sociali, ma anche nella
società, che ha diffuso la consapevolezza del fatto che il lavoro manca (con tutti i disastri sociali che ne
conseguono) non a causa di qualche strozzatura del sistema economico-finanziario (autocorreggibile dal
sistema stesso e dalla sua appendice politica), ma semplicemenete perché non è più necessario[1]. Tutti
vedono i capannoni abbandonati, le filiali delle banche chiuse (e quelle non chiuse, vuote), i locali dei
negozi sfitti. Tutti leggono sui giornali articoli come quello intitolato Paradosso Germania: l’economia è
in volo e le aziende licenziano[2] in cui l’amministratore delegato di Deutsche Bank dichiara – dopo aver
richiesto novemila esuberi già nel 2015 – che «siamo troppo basati sul lavoro manuale, il che ci rende
inefficienti. C’è molto che possiamo imparare dalle macchine e possiamo fare molta meccanizzazione …
Diamo lavoro a novantasettemila persone e la maggior parte dei nostri competitori ha metà di quei
dipendenti». Con un surplus di bilancio di 31,5 miliardi di euro la Germania potrebbe tranquillamente
procedere verso l’obiettivo della piena occupazione. E invece, nello stesso articolo, si legge che l’
Leggi tutto: http://sbilanciamoci.info/ruolo-dello-al-tempo-delleconomia-digitale/