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Infolampo: Occupazione – Fisco

Occupazione ancora in calo. Cresce solo il lavoro
dipendente ma è sempre più precario
Continua a scendere l’occupazione nelle Marche con altri 3 mila posti di lavoro persi nel 2017. In forte
calo il lavoro autonomo, solo parzialmente compensato dal lavoro dipendente che torna a crescere, in
particolare nell’industria manifatturiera, ma è soprattutto lavoro precario.
E’ quanto emerge dai dati forniti dell’ISTAT ed elaborati dall’IRES CGIL Marche.
Nelle Marche, il numero degli occupati è sceso a 616 mila unità, ovvero 3 mila occupati in meno rispetto
allo stesso periodo dell’anno scorso, con un calo pari a -0,6%,
in controtendenza rispetto al dato nazionale (+1,2%) e a quello
delle altre regioni del Centro Italia (+1,1%).
Il calo interessa il lavoro autonomo mentre il lavoro
dipendente continua, seppur lentamente, a crescere (+0,7%)
portando il numero dei lavoratori dipendenti a 461 mila,
ovvero 3 mila in più rispetto al 2016. Dato positivo che,
peraltro, interessa sia la componente maschile sia quella
femminile, ma ben al di sotto delle tendenze nazionali (+2,9%)
e di quelle delle regioni del Centro (+3,1%). Peraltro, occorre
ricordare, che l’ISTAT considera occupati tutti coloro che
nella settimana di riferimento hanno svolto almeno un’ora di
lavoro.
Complessivamente, i posti di lavoro perduti dal 2008 ad oggi,
ammontano a 36 mila di cui 25 mila di lavoratori dipendenti.
Occorre poi evidenziare che cresce esclusivamente il lavoro
precario, con 17 mila lavoratori dipendenti in più rispetto al
2016 (+24,2%) mentre continua inesorabilmente a scendere il
lavoro stabile, con altri 14 mila lavoratori in meno (-3,6%).
Dunque, nelle Marche, sono precari il 19,0% dei lavoratori dipendenti: il dato peggiore dopo quello di
Puglia, Calabria e Sicilia.
Secondo Daniela Barbaresi, Segretaria Generale della CGIL Marche, “questi dati confermano le
debolezze del mercato del lavoro marchigiano che abbiamo più volte denunciato: la crescita è troppo
debole e i lavori a termine stanno erodendo sempre più il lavoro stabile, contribuendo ad accrescere la
condizione di disagio di intere generazioni. Il lavoro, anche quando c’è non riesce a rappresentare più per
le persone un elemento di sicurezza e soddisfazione”.
Sono 73 mila le persone in cerca di lavoro, in calo dell’1,1% rispetto allo stesso periodo del 2016,
soprattutto per il numero di inattivi che decidono di tornare a ricercare attivamente un lavoro e di coloro,
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Le riforme del fisco di cui nessuno parla
Si parla tanto di imposte, ma nessuno sembra preoccuparsi delle riforme che sarebbero veramente
necessarie per combattere elusione ed evasione. Tre i nodi principali: raccolta e utilizzo dei dati, legge
sulla privacy e rapporto tra centro e periferia.
di Alessandro Santoro
Le “disattenzioni” della politica
Il dibattito delle prossime settimane sarà presumibilmente infarcito di proposte fiscali, connesse sia alle
promesse della campagna elettorale – la flat tax e le varie ipotesi di riduzione delle imposte – sia
all’eterno ritorno delle clausole di salvaguardia e del possibile aumento dell’aliquota ridotta e ordinaria
dell’Iva. Con altrettanta probabilità, non sarà dedicata alcuna attenzione al tema delle riforme
dell’amministrazione finanziaria, irrisolto nella legislatura precedente se non per specifici aspetti – tra cui
le nuove procedure per il ripristino delle posizioni dirigenziali in seno all’Agenzia delle Entrate.
La disattenzione è particolarmente colpevole quando gli stessi partiti che propongono le riduzioni delle
imposte indicano l’aumento del rispetto delle norme fiscali e il contrasto dell’evasione come fonti di
entrata, ma ignorano per insipienza o per calcolo che questi risultati si possono ottenere solo affrontando i
nodi che oggi impediscono alla nostra amministrazione finanziaria di fare il salto di qualità. Ne indico qui
tre: la riorganizzazione della filiera dei dati, gli ostacoli posti dalla legge sulla privacy e il rapporto tra
centro e periferia.
Dall’anagrafe tributaria alla legge sulla privacy
Il nostro paese è l’unico, tra quelli occidentali, in cui i dati dell’anagrafe tributaria sono gestiti da una
società esterna all’amministrazione finanziaria (Sogei) e in cui la predisposizione di una parte rilevante
degli strumenti di incentivo alla compliance – gli studi di settore oggi e domani, chissà, gli Isa (indici
sintetici di affidabilità) – è anch’essa affidata a una società esterna (la Sose).
Questa architettura poteva avere un senso quando era necessaria per assicurare snellezza e flessibilità
nonché per garantire livelli di efficienza che all’interno dell’amministrazione finanziaria non si potevano
raggiungere. Oggi non è più così. Il fatto che l’Agenzia delle entrate debba affidarsi a partner esterni
rallenta i tempi, crea zone in cui le responsabilità sulla gestione dei dati non sono chiare (le vicende dello
spesometro sono illuminanti al riguardo) e duplica i costi (basti vedere il proliferare, in queste società, di
posizioni dirigenziali con remunerazioni non commisurate al rischio, praticamente nullo visto che si tratta
di società il cui fatturato è garantito dallo Stato). Eppure, la soluzione sarebbe semplice: accorpare queste
società nell’Agenzia delle entrate con un’operazione simile a quella che è stata fatta per la riscossione. In
questo modo sarebbero in capo all’Agenzia delle entrate tutte le funzioni che nascono dal momento
dell’approvazione della normativa fiscale in poi: prevenzione dell’evasione e incentivo al rispetto delle
norme, gestione dei tributi e riscossione delle imposte. E non ci potrebbero essere rimpalli di
responsabilità circa la capacità di ottenere risultati.
Neppure questa riforma, tuttavia, sarebbe sufficiente senza un deciso ripensamento degli ostacoli oggi
posti dalla legge sulla privacy. Basti pensare a quanto accaduto con il potenzialmente importantissimo
strumento dell’anagrafe dei rapporti finanziari, introdotto nel 2011, ma di fatto molto poco utilizzato
come ha osservato dalla Corte dei conti. Il riferimento normativo all’utilizzabilità solo in sede di
accertamento ha impedito che da noi accadesse ciò che negli altri paesi è da anni normale, come si
segnala nel rapporto di Ocse e Fondo monetario internazionale: l’utilizzo dell’anagrafe per la verifica di
solvibilità dei contribuenti nei confronti dei quali va esercitata la riscossione delle imposte. Questo
consentirebbe di aumentare l’efficienza nella riscossione, rivolgendosi in modo prioritario a coloro che
hanno disponibilità sufficienti per pagare quanto dovuto ed evitando di rincorrere debitori che non
saranno mai in condizione di farlo. Solo un malinteso principio di equità sotteso al finto garantismo delle
normative impedisce che da noi si possa fare la stessa cosa.
Più in generale, le garanzie della privacy oggi impediscono – o costringono in forme del tutto inutili – le
procedure di incrocio dei dati dell’anagrafe dei rapporti con gli altri database dell’amministrazione
finanziaria.
In questi anni l’amministrazione finanziaria centrale è cambiata per cercare di rispondere a queste sfide,
ma il territorio e le sedi locali dell’Agenzia delle entrate, decimate dalle perdite di personale dopo la
sentenza della Corte costituzionale sulle procedure per le nomine dirigenziali, sono rimaste pressoché al
palo. Sul territorio, ovvero laddove il contribuente incontra veramente il fisco, continua a prevalere un
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