Infolampo: Globalizzazione – Guerre commerciali
Tutti gli squilibri della globalizzazione
I più ricchi ne hanno tratto quasi solo benefici, i meno abbienti quasi solo svantaggi. La caduta più
profonda per il terzo degli italiani più poveri che hanno consumato i propri risparmi. Ma anche i ceti
medi hanno visto scendere i loro patrimoni
di Giorgio Frasca Polara
Le risorse delle 10 famiglie più ricche del Paese equivalgono a quelle di 18 milioni di italiani. E’ il dato
più impressionante (benché in qualche misura supposto, e da tempo) di una inchiesta condotta per il
Corriere della Sera da Federico Fubini esclusivamente sulla base dei dati di Banca d’Italia, Istat e Forbes.
Il punto di partenza dell’inchiesta è stato rappresentato dalla recentissima indagine di Bankitalia sui
bilanci delle famiglie: tranne le ricchissime, tutte le altre hanno registrato, nel periodo 2006-2016, una
perdita di valore dei propri averi.
Per valutare come e quanto sia cambiata nel decennio la
ricchezza degli italiani, Fubini li ha divisi in venti gruppi
sociali diversi, calcolandone i risparmi e gli investimenti pro-
capite: dai nuclei familiari poverissimi (solo debiti), a quelli
pressoché nullatenenti (524 euro di risparmio per abitante)
alle dieci famiglie più ricche del Paese, quelle in cui ogni
singolo componente può contare mediamente su un
patrimonio di circa un miliardo. Per queste dieci famiglie
l’inchiesta calcola una ricchezza netta, al 2016, di 5.268
miliardi, equivalente a oltre tre volte il reddito nazionale e a
quasi due volte e mezzo il debito pubblico. Attenzione, tutto
questo si deduce da dati ufficiali: le attività finanziarie nette
sono quelle registrate dalla Banca d’Italia, mentre delle
attività non finanziarie (per lo più immobili) dà conto l’Istat.
Il risultato è che chi più aveva all’inizio del decennio preso in esame più ha aumentato la propria
ricchezza netta: addirittura del 72%, in termini reali. Mentre chi meno aveva all’ingresso della Grande
recessione (cioè il nucleo pressoché nullatenente) ha subito una drastica riduzione della ricchezza netta: –
63,5% (si tratta della seconda fascia, ché la prima, dei nullatenenti, aveva solo debiti e così è rimasta
semmai vedendo aumentare i propri debiti). Vale a dire che i risparmi sono stati falcidiati con tanta
maggiore intensità quanto più le famiglie appartenevano ai ceti sociali meno abbienti. L’arco delle perdite
discende infatti, sino al millesimo percentuale, dalla seconda fascia (già citata) alla ottava: -51% per chi
aveva una ricchezza pro-capite sino a 1.478 euro; -48% sino a 3.085; -42,2% sino a 5.090; -32.7% sino a
11.685; -21,5% sino a 24.400; -16,7% sino a 32.955; -12,3% sino ad una ricchezza netta pro-capite di
42.019 euro. Più ondeggianti le perdite (ma sempre e solo perdite) dalla nona fascia in su: -16,7% per chi
aveva 48.452 e per chi ne aveva 54.747; -15,5% sino a 72.890; -12,6% sino a 78.520; -18,3% sino a
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Divorzi all’italiana, oggi si decide
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Ma le guerre commerciali non prevedono il lieto fine
Oggi è difficile essere ottimisti su una risoluzione consensuale della controversia commerciale tra Usa e
Cina. Ma se le sanzioni minacciate diventassero realtà, il gioco si farebbe davvero pericoloso, per i due
paesi e per gli scambi internazionali.
di Carlo Altomonte
Gran parte degli osservatori avevano paventato il rischio che le mosse del presidente Trump in materia di
politica commerciale sarebbero potute sfociare in una disputa fuori controllo. Basta guardare la sequenza
temporale preparata dal Financial Times per capire che la previsione si è avverata:
•23 marzo: gli Stati Uniti impongono dazi su acciaio e alluminio usando la clausola della sicurezza
nazionale (section 232 del codice di commercio americano) per motivare la decisione, come argomentato
in questo articolo. Alcuni paesi, tra cui l’Unione europea, ottengono una temporanea moratoria (in
scadenza il 1° maggio). La Cina viene colpita dalle misure, anche se in modo marginale.
•2 aprile: la Cina annuncia dazi compensativi alle misure americane su acciaio e alluminio, imponendo
nuove tariffe del 25 per cento su 128 categorie di prodotti Usa, tra cui carne di maiale, frutta e noci, tubi
di acciaio, per un controvalore di circa 600 milioni di dollari di esportazioni americane.
•3 aprile: l’amministrazione Usa annuncia un nuovo elenco di 1333 categorie di prodotti cinesi che
potrebbero essere soggette a tariffe del 25 per cento entro l’estate, per stimati 60 miliardi di dollari.
Secondo le autorità americane, i dazi hanno lo scopo di eliminare alcune pratiche commerciali cinesi
“irragionevoli o discriminatorie”, inclusi trasferimenti forzati di tecnologia, investimenti e acquisizioni di
beni per ottenere proprietà intellettuale e tecnologia statunitense, a seguito di una specifica indagine
(section 301) del dipartimento del Commercio americano.
•4 aprile: la Cina identifica un elenco di 106 categorie di prodotti americani pari a circa 50 miliardi di
dollari che potrebbero a loro volta essere soggetti a tariffe del 25 per cento. Contrariamente alle misure
del 2 aprile, questi prodotti includono alcune esportazioni chiave degli Stati Uniti verso la Cina, come i
semi di soia e le auto.
•5 aprile: il presidente Trump in un comunicato annuncia che “alla luce delle ingiuste rappresaglie della
Cina”, ha incaricato il rappresentante commerciale statunitense di “valutare se 100 miliardi di dollari di
tariffe aggiuntive sarebbero appropriate” e di identificare quali prodotti dovrebbero essere interessati da
queste ulteriori nuove misure.
Strategie di breve e lungo periodo
Mentre scriviamo, siamo in attesa dell’annuncio di una possibile nuova rappresaglia cinese, e in generale
di capire dove questa insensata guerra commerciale porterà il sistema degli scambi commerciali
internazionali, il principale motore della crescita economica mondiale.
Secondo le stime di Natixis, circa l’85 per cento del valore totale dei 1333 prodotti cinesi che potrebbero
essere soggetti a tariffa Usa è costituito da esportazioni ad alto valore aggiunto tecnologico (strumenti
ottici, medici e di misurazione avanzati; macchinari di meccanica avanzata; prodotti farmaceutici),
coerentemente con l’impostazione della section 301 su cui si basano le sanzioni, per un controvalore che
sembra inferiore a quello annunciato di circa 60 miliardi di dollari.
Dal canto suo, la lista cinese di 106 tariffe ha un valore effettivo simile a quello annunciato (50 miliardi
di dollari) con dazi al 25 per cento comparabili a quelli americani, dunque tecnicamente all’interno delle
misure compensative autorizzabili dalla World Trade Organization. I prodotti oggetto delle possibili
tariffe (soia, cereali, automobili, aerei) sono caratterizzati da basso valore aggiunto o da tecnologie
mature, ma rappresentano alcune tra le principali voci di esportazione americana verso la Cina.
Dunque, mentre da un punto di vista di livello di dazi e volumi di commercio interessati le due politiche
sono comparabili, la loro natura è diversa: gli Stati Uniti prendono di mira i settori strategici in cui la Cina
sta cercando di crescere, sia in termini di quota di mercato globale che nel livello tecnologico, secondo la
dottrina “Manufacturing 2025” voluta da Xi Jing Ping.
Pechino risponde puntando a massimizzare il costo di breve periodo per una ampia parte degli esportatori
statunitensi, tentando di limitare i danni per la sua economia. Una strategia che a stretto giro potrebbe
pagare, visto che a novembre negli Stati Uniti si vota per il rinnovo di metà Camera e Senato e alcune
industrie e stati americani potrebbero essere particolarmente colpiti dalla ritorsione cinese. La risposta di
Trump all’annuncio cinese, con la minaccia di un pacchetto ancora più ampio di tariffe, è stata infatti
immediata. Tuttavia, è una strategia che nel lungo periodo ha margini limitati, in quanto lo sviluppo
industriale cinese in parte dipende dall’export americano: non a caso, la quarta categoria merceologica più
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