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Infolampo: Tempi – Ricchezza

Vita e lavoro, cambiano i «tempi»
Riduzioni forzate dovute alla crisi, aumento della produttività, lavoratori sempre connessi: tutti questi
cambiamenti, spiega Gramolati (Cgil), rendono necessaria una nuova politica degli orari. Il ruolo
centrale della contrattazione
di Stefano Iucci
Innovazione tecnologica e, soprattutto, tanti anni di crisi, ci hanno consegnato uno scenario inedito, anzi
paradossale: le ore lavorate diminuiscono, ma il tempo di lavoro aumenta. Sembra una contraddizione, ma
non è così, ed è tutto “merito” (o demerito) della
connessione, cioè del tempo sempre più lungo in cui,
magari senza star effettivamente lavorando, siamo a
disposizione di una possibile chiamata del nostro datore
di lavoro. “Il punto – spiega Alessio Gramolati,
responsabile Industria 4.0 della Cgil – è che questo tempo
di lavoro in cui siamo connessi oggi si considera
legittimamente ‘proprietà’ dell’impresa. Non è
contrattualizzato, non produce valore alcuna per il
lavoratore. Ecco, questo non va bene”.
Anche perché questo tempo un valore ce lo ha,
effettivamente…
Certamente. Se un lavoratore durante la sua prestazione decidesse di disconnettersi, l’organizzazione
aziendale glielo impedirebbe e se lo stesso lavoratore continuasse su questa strada, questa scelta avrebbe
effetti sul piano disciplinare. Quindi, ricapitolando, è del tutto evidente che la connessione ha un valore,
solo che questo vantaggio va tutto all’impresa. Ed è per questo che in tutto il mondo è cominciato un
dibattito importante nel quale si discute di come questa disponibilità vada contrattata.
E come ci si sta muovendo?
Gli approcci sono sostanzialmente due. Quelli che pensano che la regolazione debba avvenire per legge –
cioè il modello francese – e quelli che puntano sulla contrattazione, come i tedeschi. Entrambi pongono
un tema giusto, ma la nostra propensione, come è noto, è per la via negoziale. La Cgil nella recente
Conferenza di programma che si è svolta a Milano ha ribadito che la connessione va, appunto, contrattata.
Quali sono secondo te i vantaggi di questo approccio?
Credo che l’approccio contrattuale consenta una maggiore flessibilità nell’affrontare situazioni molto
diverse. Un conto, per dire, sono le lavorazioni a ciclo continuo, un altro le prestazioni lavorative legate a
un’attività intellettuale. Ovviamente in comune c’è il dato di fondo fondamentale: il vantaggio deve
essere equamente redistribuito.
Ci sono già esperienze di contrattazione di questo tipo in atto?
Sì, questa sensibilità sta cominciando a diffondersi. Naturalmente con delle differenze. Ad esempio, tra i
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Global. Pochi giorni alla scadenza
del concorso di cortometraggi

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La ricchezza dei pochi non fa girare il mondo
Altro che flat tax, l’ultimo rapporto Ocse certifica la necessità di un impianto impositivo a chiara
vocazione redistributiva visto che la disuguaglianza risulta dannosa per la crescita di lungo periodo.
Servirebbe una tassa patrimoniale sulla ricchezza netta, potrebbe essere un efficiente sostituto della
tassazione dei redditi da capitale.
di Greta Veresani
Il 10% più ricco della popolazione OCSE guadagna 9.5 volte il reddito del 10% più povero. Il rapporto
negli anni ’80 era di 7 a 1.
I dati sulla crescita del reddito suggeriscono ulteriori aumenti di diseguaglianza. Piketty e Zucman hanno
dimostrato che negli Stati Uniti tra 1980 e 2013 il reddito medio nazionale per adulto è cresciuto del 60%
in termini reali, ma quello del 90% più povero è aumentato solo del 30% e per il 50% più povero non è
cresciuto affatto: i redditi più alti crescono di più.
La ricchezza è ancor più iniquamente distribuita del reddito. In 18 paesi OCSE il 40% più svantaggiato
detiene solo il 3% della ricchezza. Il 10% più in alto nella distribuzione detiene il 50% e l’1% più ricco ne
detiene un quinto.
Sono i dati del rapporto OCSE “The role and Design of net wealth taxes in the OECD”(2018).
L’economia mainstream ha sempre sostenuto l’esistenza di un trade-off , una relazione inversa, tra
crescita ed eguaglianza.
Per lasciar crescere l’economia bisognerebbe, almeno in un primo momento, accettare l’effetto collaterale
dell’aumento della disparità per poi registrarne una diminuzione, grazie agli effetti positivi generalizzati
dello sviluppo. Dopo un’effettiva riduzione tra gli anni ‘50 e ‘80, però, si registra un ritorno ai livelli di
disuguaglianza di un secolo fa.
OCSE e FMI hanno a lungo raccomandato politiche di crescita affidate al ruolo dei mercati e alle
“riforme strutturali” con una riduzione delle imposte e della spesa pubblica a sostegno della
redistribuzione. Le politiche d’austerità adottate in risposta alla crisi del 2008 – limiti al deficit del
bilancio pubblico, attenuazione della tassazione di attività finanziarie e ricchezza, privatizzazioni – hanno
però ottenuto come risultato un aumento della disuguaglianza ed anche una stagnazione prolungata.
Secondo l’Economic Outlook dell’OCSE (2017) la crescita dell’economia mondiale sta aumentando
leggermente ma resta sotto i livelli pre-crisi.
L’Italia in particolare, nonostante la riduzione di deficit e indebitamento e il rispetto dei vincoli strutturali,
registra una crescita del PIL inchiodata al di sotto dell’1,5%, ben inferiore alla media europea.
D’altra parte, l’evidenza delle disparità distributive sta riacquistando centralità, dando spinta a un rinato
interesse verso progressività e imposte patrimoniali.
L’OCSE stessa ha recentemente riconosciuto che la disuguaglianza risulta dannosa per la crescita di
lungo periodo e che le politiche strutturali devono essere accompagnate da misure che distribuiscano in
modo più equo i dividendi della crescita.
I principali fattori alla base della crescente iniquità indicati dal rapporto sono globalizzazione,
liberalizzazione dei mercati, cambiamento tecnologico, concentrazione di impresa, declino delle
occupazioni medio basse, innalzamento del potere contrattuale dei soggetti ad alto reddito, abbassamento
dell’aliquota marginale sui redditi più elevati, sistema fiscale generalmente meno progressivo.
Secondo Piketty un fattore centrale è costituito da rendimenti del capitale superiori al tasso crescita del
PIL e al conseguente aumento del rapporto capitale/lavoro. Fondamentale, quindi, il ruolo della ricchezza.
Con il crescente ruolo assunto dalla finanza e le frequenti bolle speculative dei mercati finanziari e
immobiliari, infatti, il valore della ricchezza è aumentato più velocemente della crescita del PIL
favorendo l’aumento dei redditi più alti.
Nonostante i dati abbiano registrato una crescente diseguaglianza nelle distribuzioni del reddito e della
ricchezza a partire dagli anni ‘80 del secolo scorso, tra gli anni ‘90 e ‘00 molti paesi hanno abrogato
l’imposta patrimoniale sulla ricchezza netta e si è verificata una generale diminuzione dell’aliquota fiscale
applicata alle fasce di reddito più elevate e ai redditi da capitale.
In particolare, secondo il rapporto, il valore medio non ponderato dell’aliquota dell’imposta sul reddito
delle società è diminuita dal 47% al 24% tra il 1981 e il 2017. Quello dell’aliquota applicata ai dividendi
dal 75 al 42%. Inoltre, nonostante i redditi crescano a un ritmo più elevato nella parte più alta della
distribuzione rispetto a quanto accade nella parte bassa, si registra un abbassamento consistente
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