Infolampo: Lavoro – Populismo
«Investire sul lavoro per il futuro del Paese»
Colla (Cgil) a RadioArticolo1: “Il nuovo esecutivo parla poco di lavoro, ma dovrà vedersela con 162
tavoli di crisi aperti al Mise. La campagna elettorale è finita, ora bisogna passare ai provvedimenti. È
necessario puntare sull’occupazione di qualità”
Il governo Conte, dopo la nomina dei viceministri e dei sottosegretari, è ora pienamente operativo e dovrà
vedersela con i 162 tavoli di crisi aperti al Ministero dello sviluppo economico, che mettono a rischio ben
180.000 posti di lavoro. Finora, però, tra le molte
dichiarazioni rilasciate dai membri dell’esecutivo nessuna ha
sfiorato queste situazioni. “In realtà, sono i numeri che più
ci interessano e più ci preoccupano, perché parlano del
futuro del sistema produttivo di questo Paese, quindi di una
prospettiva fondamentale. La Cgil ha più di 110 anni,
abbiamo gestito la discussione con tanti governi, e con
l’attuale esecutivo faremo quello che abbiamo sempre fatto:
diremo dei sì e dei no in autonomia, faremo accordi o non li
faremo, metteremo in atto conflitti o mediazioni. Per quanto
ci riguarda abbiamo grande rispetto del voto, ma seguiremo
comunque la nostra storia”. Lo ha detto Vincenzo Colla,
segretario confederale del sindacato di Corso d’Italia, ai
microfoni di RadioArticolo1.
Finora tra i membri del nuovo governo nessuno ha chiarito
come intendano creare lavoro in un Paese in cui la
disoccupazione è tra le più alte d’Europa. Molte parole sono
state invece spese su come bloccare alcune opere e infrastrutture, ma nessuna su investimenti,
innovazione e industria 4.0. “Il contratto firmato da Lega e M5s ha un vuoto evidente – ha continuato
Colla -. La campagna elettorale è finita, ora bisogna passare ai provvedimenti. All’Italia servono
investimenti infrastrutturali, e su questo saremo inflessibili. Perché creare lavoro vuol dire avere un’idea
delle grandi traiettorie degli investimenti, che producano occupazione anche sostenibile dal punto di vista
ambientale”.
L’unico accenno al lavoro in questi primi giorni di vita del governo, in realtà, l’ha fatto il primo ministro
Giuseppe Conte, quando al Senato ha parlato di salario minimo legale. “Invece in Italia – ha continuato il
segretario confederale Cgil – bisognerebbe far applicare i contratti. Ci sono 900 contratti depositati e solo
300 sono firmati dai confederali. Gli altri sono un misto tra contratti pirata e associazioni che nascono e
poi muoiono. Il primo passo da fare è quindi mettere in sicurezza la contrattazione. Firmare un contratto è
un fatto democratico per il Paese, perché nel contratto ci sono diritti e doveri, e c’è un’idea di tenuta
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“Smettendo di chiederci il perché
delle cose, siamo diventati razzisti”
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Un populismo di nuova generazione
In uno dei saggi che hanno maggiormente lasciato il segno nella critica letteraria della seconda metà del
Novecento (Scrittori e popolo, Einaudi, 1965), Alberto Asor Rosa evidenziava un atteggiamento costante
degli intellettuali italiani nei confronti delle masse popolari, oscillante tra due opposti poli di
rappresentazione: da un lato, un approccio accademico-elitario tendente a confondere il popolo con le
masse, mettendone in luce gli aspetti più regressivi e l’incapacità di ribellarsi consapevolmente agli
abusi e ai privilegi di una classe dirigente corrotta; dall’altro, un approccio tipicamente piccolo-
borghese, in cui il popolo viene idealizzato come portatore di valori genuini e potenzialità civiche
represse dai gruppi dominanti.
Scritto da: Antonello Ciervo
Questa seconda rappresentazione, osservava Asor Rosa, era propria anche di una certa cultura
progressista di ispirazione gramsciana, che individuava nell’opera (teorica e politica) di Carlo Pisacane il
proprio capostipite e che tendeva ad idealizzare la laboriosità e le virtù civiche dei subalterni,
contrapponendole al parassitismo delle classi dirigenti.
Scritto da: Antonello Ciervo
Questo atteggiamento bipolare nei confronti del popolo, da cui la cultura progressista del nostro Paese
non sembra ancora essersi del tutto affrancata, si ripropone nel dibattito odierno sull’emersione dei
populismi ma con modalità diverse rispetto al passato, proprio perché oggi siamo di fronte ad un
populismo di nuovo conio, certamente diverso da quello studiato da Asor Rosa, e che pervade non più
soltanto l’ambito letterario e culturale, ma la sfera pubblica in senso lato.
Al di là della fortuna di alcuni autori che hanno saputo preconizzare l’egemonia della “ragione populista”
nelle democrazie occidentali, la questione sembra assumere in Italia connotati sui generis. All’avanzata di
questi movimenti nell’agone politico, infatti, si sovrappone l’emersione di un problema ulteriore che
potremmo chiamare “questione giovanile”, visto che ormai nel nostro Paese la disoccupazione degli
under 35 si attesta da molti anni intorno al 40% ed un’intera generazione appare incapace di costruirsi un
futuro esistenziale e lavorativo stabile, preferendo (o essendo costretta ad) emigrare per trovare migliori
condizioni di vita.
Questa nuova questione – che fa il paio con la ormai secolare ed irrisolta “questione meridionale” – trova
in alcune recenti pubblicazioni una formulazione teorica ben connotata, in cui il tema delle riforme
economiche per far ripartire il Paese, si sovrappone alla necessità di tutelare e valorizzare il “capitale
umano” delle giovani generazioni italiche scappate oltre confine: a questo, per così dire, “populismo
generazionale” – sia consentito il neologismo – che caratterizza l’attuale dibattito italiano, tanto i media,
quanto i giornali e l’industria culturale hanno dato grande visibilità nel corso degli ultimi anni.
Tra i tanti lavori apparsi sul tema, di particolare interesse – per le suggestioni teoriche e politiche che
sollecitano – vanno tenuti in conto il saggio di Raffaele Alberto Ventura, pubblicato da Minimum fax,
Teoria della classe disagiata, e il lavoro collettaneo dell’associazione “Senso comune”, curato da Samuele
Mazzolini, I giovani salveranno l’Italia. Come sbarazzarsi delle oligarchie e riprenderci il futuro, edito da
Imprimatur. Si tratta di due lavori molto diversi tra loro per analisi, approccio e proposte (anche se, a ben
vedere, il lavoro di Ventura di proposte ne formula ben poche), ma entrambi accomunati da una spietata
analisi del presente.
Quello che colpisce di questi libri, innanzitutto, è che sono stati scritti da giovani intellettuali quasi tutti
espatriati all’indomani della crisi del 2007, che hanno quindi subìto sulla loro pelle la grande
trasformazione neoliberale del mercato del lavoro italiano di inizio millennio, trovandosi catapultati in un
sistema concorrenziale privo di garanzie e con remunerazioni al limite della sopravvivenza. In verità, il
saggio di Ventura si presenta come una lucida e a tratti disincantata analisi della nuova generazione di
intellettuali che, cresciuti con il mito del successo facile inculcatogli dalle televisioni commerciali, si è
ritrovata a vivere al di sopra delle proprie capacità economiche.
Mettendo opportunamente da parte la retorica meritocratica, Ventura evidenzia come gli appartenenti a
questa “classe disagiata” altri non sono che i figli di quella media borghesia colta e benestante che non è
più in grado, con il proprio lavoro, di riprodurre la condizione economico-famigliare di partenza, oltre che
di mantenere il proprio status sociale medio-borghese: generazione viziata, quindi, vittima di un’enorme
illusione catodica e che oggi balbetta di fronte alla precarietà esistenziale, non riuscendo ad immaginare
un futuro per sé, né evidentemente a progettare un riscatto collettivo.
L’analisi però, per quanto spietata, resta ferma al palo: non soltanto non c’è una lettura genuinamente
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