Infolampo: Def – Porti siciliani
Def, se a rischiare è persino il sentiero stretto di Padoan
La manovra economica è estremamente complicata senza ulteriori margini di flessibilità. Se poi
consideriamo le minori entrate legate alla dinamica del Pil, la maggiore spesa per il servizio del debito e
le spese obbligatorie, il quadro di riferimento diventa abbastanza stringente
di Roberto Romano
Si avvicina il Def e la sessione di bilancio per il governo e si prefigurano le prime ipotesi (pensioni, flat
tax, reddito di cittadinanza, investimenti). Si riflette anche sui vincoli europei, ma in realtà non sono mai
discussi con la dovuta credibilità. Sebbene il Fiscal compact sia
decaduto e la Commissione europea abbia avviato una
riflessione sul tema, questo governo ha rinunciato alla
discussione per quanto possa sembrare strana la
puntualizzazione.
E del resto, il ministro Tria non ha mai criticato il modello
econometrico (ingegneristico) utilizzato dalla Commissione per
stimare l’output gap (crescita potenziale) e, quindi, il cosiddetto
pareggio di bilancio strutturale. Tanto rumore per nulla? Forse.
Innanzitutto, corre l’obbligo di insistere su un punto: la
valutazione dei bilanci nazionali fatta dalla Commissione
europea utilizza due parametri, indebitamento strutturale e
debito.
Non solo. La valutazione si fonda su un modello che con il
passare degli anni avvicina il Pil potenziale a quello reale,
ovvero l’indebitamento nominale tende ad avvicinare quello
strutturale (1). Seguendo il ragionamento della Commissione,
non solo l’Italia ha occupato tutto il lavoro potenziale, ma qualsiasi manovra-misura per incrementare il
reddito disponibile genererebbe solo maggiore inflazione. Tesi ardita e discutibile, ma le più recenti
proiezioni della Commissione per l’Italia sottolineano quanto segue: se nel 2014 il nostro Paese poteva
contare su un Pil potenziale del 4,5%, nel 2018 l’output gap sarebbe pari a 0,1 punti percentuali; mentre
nel 2019 dovrebbe contrarre la crescita reale dello 0,5 per evitare rischi inflazionistici (2).
L’indebitamento e il debito pubblico, in questo modo, inseguirebbero gli obbiettivi di “pareggio”
giocando a rugby, ovvero passando la palla sempre all’indietro. Naturalmente, si può guadagnare terreno,
ma alla sola condizione di coinvolgere tutta la squadra (anche l’Europa). La discussione politica e/o
giornalistica sul possibile superamento del 3% del deficit pubblico, introdotto con il Trattato di
Maastricht, sembra fumo negli occhi per evitare al governo e alla Commissione di ridisegnare i criteri
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Saranno i robot a prendersi
cura di noi?
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I porti siciliani: approdo dei migranti, ma soprattutto
infrastrutture del commercio internazionale
I porti siciliani sono al centro del dibattito pubblico per le ben note vicende legate ai flussi migratori
provenienti dall’Africa mediterranea. Osservati da questo punto di vista quei porti, secondo alcuni – tra
cui il Ministro Salvini – quei porti dovrebbero essere chiusi. Posizioni diverse sui flussi migratori
portano a conclusioni opposte. Ma non è da questa prospettiva che intendiamo analizzare i porti
siciliani. Prendendo spunto dall’attenzione che l’immigrazione ha attirato su di essi, guarderemo ai porti
siciliani dal punto di vista del loro contributo al commercio internazionale, da un lato, e all’economia
dell’isola, dall’altro.
Scritto da: Rama Dasi Mariani e Federico Nastasi
La letteratura economica offre diverse spiegazioni teoriche circa l’effetto positivo che l’immigrazione può
avere sul commercio internazionale. La presenza di popolazione straniera può aumentare il volume degli
scambi commerciali con l’estero del paese ospitante mediante la riduzione dei costi degli stessi. La dote
informativa che i migranti apportano circa le caratteristiche dei mercati e delle pratiche commerciali dei
paesi da cui provengono, le abilità linguistiche e le reti sociali di cui questi dispongono (che risultano
essere essenziali per l’apertura o l’espansione dei canali commerciali) possono rivelarsi elementi
essenziali per ridurre l’asimmetria informativa ed i costi di transazione e, dunque, per facilitare ed
incrementare il commercio internazionale.
I due fenomeni, quello migratorio e quello commerciale, non sono legati solamente da questo ipotetico
nesso causale. Come abbiamo anticipato, il dibattito pubblico in entrambi i casi è concentrato sui costi
piuttosto che sui potenziali benefici. È, invece, importante per la valutazione delle politiche pubbliche
portare alla luce tutte le conseguenze connesse allo spostamento di persone e di merci. Da questa
prospettiva, i porti che si intende chiudere all’accesso dei migranti sono al contempo l’infrastruttura
principale per l’interscambio di merci della Sicilia, la prima regione d’Italia per arrivo dei flussi. Qui si
propone un’analisi delle relazioni commerciali della regione esaminando, in modo particolare, il ruolo
esercitato dal sistema portuale.
Quanto, dove e cosa esporta la Sicilia?
Con l’1.7% di export e il 3.2% dell’import sul totale degli scambi italiani, la Sicilia attualmente non
risulta essere né un hub di interscambio né un esportatore. Il ruolo di hub commerciale internazionale del
Mediterraneo è giocato dal porto calabrese di Gioia Tauro. Tuttavia, esso incontra limiti di sviluppo a
causa dei ridotti collegamenti tramite rete ferroviaria con il resto d’Europa e per questo appare meno
attraente rispetto alla rotta atlantica e del northern range o altri porti mediterranei preferiti dalle navi
container. A dimostrazione di ciò, si può citare il caso della cinese Cosco Pacific che ha comprato per
circa 370 milioni di euro il terminal container greco del Pireo, diventato il centro della distribuzione dei
container cinesi diretti all’Europa meridionale e orientale e che ha contribuito a ridurre fortemente
l’attività degli scali italiani di Taranto e Gioia Tauro. D’altro canto, le esportazioni che partono dalla
Sicilia sono per oltre il 60% composte da prodotti petroliferi, i quali risentono degli andamenti del
comparto petrolchimico. Le due figure sottostanti mostrano la composizione merceologica degli
interscambi e la prevalenza del greggio e dei suoi derivati nel commercio. Al netto del settore
petrolchimico, tra 2015 e 2016, le esportazioni sono rimaste pressoché invariate (-0.1%), nonostante siano
aumentate le esportazioni dei prodotti chimico-farmaceutici e agro-alimentari.
Anche la direzione geografica delle vendite è stata guidata da queste dinamiche settoriali. Il mercato
statunitense ha, infatti, guadagnato importanza grazie all’aumento delle vendite degli autoveicoli al suo
interno. A questa dinamica si è contrapposta una perdita di quota della Turchia e dei paesi Opec a causa
delle minori esportazioni di prodotti petroliferi raffinati.
Nella tabella sottostante, i due indicatori dell’apertura internazionale della Sicilia registrano valori in linea
con le altre regioni del Mezzogiorno, ma più bassi rispetto al resto del Paese, dimostrando una carenza di
integrazione nel commercio internazionale.
Secondo l’ultimo rapporto della Banca d’Italia, dal 2007 al 2016, la Sicilia ha perso quote di mercato
nelle esportazioni mondiali (-40%). I limiti principali dell’export siciliano sono una penalizzante
specializzazione merceologica e geografica, in particolare una bassa presenza dei paesi emergenti lontani
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infrastrutture-del-commercio-internazionale/