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Infolampo: resistere – anti-pinochet

C’è un’Italia che resiste
Intervista a Carla Nespolo, presidente Anpi: “È un momento difficile per la democrazia, c’è chi alimenta
il fuoco dell’intolleranza. Ma c’è anche chi cerca di costruire un futuro diverso. Dobbiamo organizzare
queste energie in una resistenza civile”
di Carlo Ruggiero
Carla Nespolo, presidente nazionale dell’Anpi, è salita sul palco del 27° congresso della Fiom in corso a
Riccione, solo qualche minuto dopo che sul grande schermo era
apparsa Liliana Segre, una delle ultime testimoni della Shoah.
Ancora prima, il segretario nazionale dei metalmeccanici della
Cgil, Francesca Re David, aveva iniziato la sua relazione
parlando della memoria e della sua utilità per “rammentarci ciò
che siamo e per costruire ciò che saremo”. Segno dei tempi,
direbbe qualcuno. O forse reazione inevitabile ai rigurgiti di
fanatismo e autoritarismo che si registrano sempre più spesso in
Italia. Solo qualche giorno fa è arrivata la notizia di un blitz di
militanti di Forza nuova, che hanno attaccato uno striscione
minaccioso e acceso fumogeni davanti al cancello della sede
nazionale dell’Anpi a Roma. Senza contare gli attacchi subiti da
diverse Camere del lavoro sparse in tutta Italia, nei mesi scorsi.
Rassegna Presidente, che aria si respira oggi nel Paese?
Nespolo: Una brutta aria. C’è un problema molto serio e molto
diffuso, soprattutto perché c’è chi alimenta senza sosta il fuoco
dell’intolleranza e del razzismo.
Rassegna E scrive e fa approvare leggi che sembrano riportarci a tempi molto bui.
Nespolo Il decreto sicurezza è sbagliato. Già a partire da come è stato chiamato, perché instilla il dubbio
che ci sia un rapporto diretto tra crimine e immigrazione, e poi perché stravolge la Costituzione, negando
la protezione umanitaria. È davvero incredibile che sia stato sferrato un colpo così pesante al diritto di
asilo, all’accoglienza, all’integrazione. E poi si tratta di un testo che non risolve affatto il problema del
controllo dell’immigrazione clandestina, ma lo aggrava con un carico di lavoro insopportabile per i
Comuni. Ma il razzismo è sempre stato il brodo di coltura di ogni fascismo. La nostra giustizia sociale,
invece, si basa sugli articoli 1 e 3 della Costituzione. Cioè sul lavoro e sul rifiuto di discriminazioni di
razza e socio-economiche. I diritti delle persone sono tutelati dalla Carta.
Rassegna Cosa fare, allora?
Nespolo Di sicuro non si può restare inerti. Non ci si può rassegnare a questo declino, alle pratiche
ignobili che vengono messe in atto contro la vita e la dignità dei migranti. Abbiamo già fatto appello alle
coscienze delle cittadine e dei cittadini, affinché l’indignazione sia permanente, e non manchi occasione di
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Dall’Italia dei rifugiati anti-Pinochet a quella di Salvini & co.
Tre o quattro cose che son successe in Italia intorno a questo 10 dicembre, settantesimo anniversario
della Dichiarazione universale dei diritti dell’ONU.
di Paolo Soldini Amnesty International ci dedica un rapporto severissimo, con argomenti e toni che si dedicano, usualmente, ai paesi dove democrazia politica e libertà civili sono bandite. In Italia le migrazioni sono gestite in maniera “repressiva”, vengono erosi i diritti umani dei richiedenti asilo, la politica è dominata dalla “retorica xenofoba”, si fanno sgomberi forzati senza alternative. E poiché siamo sensibili, di questi tempi, alle coincidenze, non sfugge quella che ci ha messo sotto gli occhi queste accuse proprio mentre il giornale radio ci raccontava lo sgombero di un luogo storico per i rifugiati a Roma, la ex fabbrica della penicillina sulla via Tiburtina, presente Salvini e assente ogni idea su dove mettere l’umanità che la
riempiva, quella fabbrica.
Abbiamo scritto che Amnesty “ci” dedica il suo severo rapporto. In realtà non lo dedica a noi italiani, ma
a chi ci governa. Al governo Salvini-Di Maio-Conte le cui autorità “hanno ostacolato e continuano ad
ostacolare lo sbarco in Italia di centinaia di persone salvate in mare, infliggendo loro ulteriori sofferenze e
minando il funzionamento complessivo del sistema di ricerca e salvataggio in mare” e che nel decreto
sicurezza ha inserito misure “che erodono gravemente i diritti umani di richiedenti asilo e migranti” e che
“avranno l’effetto di far aumentare il numero delle persone in stato di irregolarità presenti in Italia”.
Ma qualche giorno fa abbiamo letto il consueto rapporto di dicembre del Censis, e quello riguardava non
il nostro governo, ma proprio noi. Noi italiani. Incattiviti, “sovranisti psichici”. Noi che per il 75%
pensiamo che gli immigrati ci portino solo la criminalità, per il 60% crediamo che siano un peso
intollerabile per l’economia e che l’integrazione sia proprio impossibile, né oggi né in futuro. È
abbastanza probabile che chi legge queste righe appartenga al 25% che non crede che tutti gli immigrati
siano potenziali criminali e al 40% che sa come gli immigrati siano quelli che salveranno le nostre
pensioni e che l’integrazione arricchisce tanto la loro cultura che la nostra. Ma non consoliamoci: le
minoranze non sempre sono innocenti e noi certamente non lo siamo.
L’Italia dunque è questo? Una classe dirigente infame e un popolo così cattivo? Eppure proprio in questi
giorni si proietta nei cinema un film di Nanni Moretti che ci racconta tutta un’altra storia, quella degli
italiani che salvarono 250 cileni accogliendoli nella nostra ambasciata a Santiago e che ne accolsero molte
migliaia che fuggivano dalla dittatura sanguinaria di Pinochet. Accadeva 45 anni fa, che sono un tempo
abbastanza lungo perché noi ragazzi di allora, che andammo a gridare nelle piazze e a piangere ai concerti
degli Inti Illimani, si sia diventati vecchi. Ma non un tempo così lungo perché non si potesse, fino a
qualche tempo fa, leggervi dentro una continuità. L’Italia fu generosa, aperta, accogliente, civile. Lo
furono gli italiani, ma anche i loro governanti di allora. Il comportamento coraggioso dei funzionari della
nostra ambasciata fu coperto dal governo di Roma, e non era un governo di sinistra. E un paio d’anni
dopo il dilemma se mandare o no i nostri tennisti a vincere la Coppa Davis in Cile diventò un caso
nazionale, risolto alla fine con la decisione di andare presa dopo che Enrico Berlinguer ne aveva discusso
con Luis Corvalan, il capo dei comunisti cileni. Ed è bello il racconto che di quei giorni fa Adriano
Panatta, che convinse tutti i tennisti della squadra a indossare una maglietta rossa: siamo qui per giocare,
ma non facciamo il vostro gioco.
Siamo orgogliosi di quella storia e siamo orgogliosi del fatto che l’Italia ne sia stata orgogliosa, classi
dirigenti e opinione pubblica (veniva da scrivere “popolo” ma la parola è diventata sospetta e anche
questo è un segno dei brutti tempi che stiamo vivendo). Qualcosa poi s’è rotta. È accaduto recentemente.
Vediamo cose e sentiamo parole fino a pochi mesi fa impensabili e indicibili, ma che sono diventate
senso comune. Nel giorno anniversario della Dichiarazione sui diritti umani, le parole del Presidente
della Repubblica ci confortano. Ma la denuncia di Amnesty ci colpisce come una frustata. “Ci” colpisce,
perché riguarda non solo chi ci governa ma tutti noi: la nostra insipienza, le nostre divisioni, le nostre
stupide beghe. Chi ci tirerà su da questo fango?

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