IL CENTRO DI RICERCA E DOCUMENTAZIONE “LUIGI EINAUDI” E INTESA SANPAOLO PRESENTANO: IL MONDO POST GLOBALE
La ricerca del Centro Einaudi evidenzia quattro grandi tematiche: la fragilità
del sistema economico globale di fronte ai problemi delle catene globali del
valore emersi con la pandemia e l’ampliamento dei divari tra classi diverse di
popolazione; la grave crisi ambientale connessa con l’uso delle risorse
energetiche; una accelerazione della tendenza a lavorare da remoto con
importanti riflessi sul mercato immobiliare (uffici e residenziale); l’ordine
geopolitico del pianeta con possibili riflessi sulla globalizzazione e la struttura
delle catene globali del valore.
La recente crisi ha messo in luce alcune debolezze specifiche dell’Europa:
vulnerabilità energetica e difficoltà a realizzare gli «obiettivi verdi»,
necessità di migliorare il coordinamento sanitario, offrire supporto ai giovani,
raggiungere obiettivi di difesa comune e rivedere i Trattati.
L’Italia esprime ambiti d’eccellenza ma resta gravata dalla presenza di troppe
micro‐imprese: il 92 per cento dei dipendenti privati lavora in aziende con
meno di 50 milioni di fatturato.
Lo studio presenta numerose proposte: una riforma fiscale che renda
conveniente lavorare e investire, una revisione della disciplina fiscale sulle
fusioni, l’introduzione del quoziente famigliare nella tassazione diretta e
l’introduzione sperimentale della settimana lavorativa di quattro giorni,
integrata da attività di formazione a distanza.
Milano, 25 ottobre 2022 – La sorprendente, contemporanea comparsa di svariate crisi globali,
diversissime tra loro, ha reso cruciali i tempi che stiamo vivendo. Quella più immediatamente
percepita dai normali cittadini è certamente la pandemia da COVID-19, che ha fatto molto di
più che provocare milioni di morti: si è anche rivelata, purtroppo, un efficacissimo
catalizzatore dell’inceppamento di un’economia globale già insicura, ulteriore elemento di
divario tra (pochi) ricchi e un numero di poveri o quasi poveri in forte aumento, tra giovani
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senza lavoro a tempo indeterminato e privi di un «piano di vita» e anziani con pensioni basse
anche se relativamente sicure.
La pandemia è comparsa all’improvviso; da tempo, però, siamo alle prese con una crisi
ambientale di ben più lunga durata, nell’ultimo anno acuita da una estrema siccità e che ha a
che fare, tra l’altro, con l’uso delle risorse energetiche. Basti considerare che, se il «sistema
Internet» fosse una nazione, sarebbe all’incirca al quarto posto nel mondo per consumo di
elettricità (dopo Cina, Stati Uniti, India e prima del Giappone) – anche grazie alla comparsa
delle criptomonete – con il 7 per cento del consumo mondiale di energia elettrica secondo le
ricerche di Greenpeace: il data mining, ovvero l’«estrazione» di risultati da enormi banche
dati, si avvia a consumare, entro pochi anni, tanta energia quanta l’estrazione di minerali e
metalli.
Come se queste due profonde trasformazioni non bastassero, di altre due dobbiamo
assolutamente tener conto.
Crisi pandemica e crisi energetica hanno accelerato la terza trasformazione di cui si tratta in
questo studio – rapida con gli occhi della storia, ma sufficientemente lenta se considerata con
quelli della politica – che riguarda il modo di lavorare. La pandemia ha accelerato la tendenza,
già in atto, al lavoro «da remoto», provocando, tra l’altro, la caduta della domanda di superfici
per uffici e l’aumento della domanda di abitazioni più vaste, in grado, appunto, di includere
spazi per il lavoro a distanza. Ma anche la riduzione della distinzione tra lavoro e tempo
«libero», tra lavoro e «vacanza». Congiunto al mutamento economico-sociale, sta
delineandosi un cambiamento finanziario di vastissima portata: si modificano i modi di
raccogliere il risparmio e le risorse finanziarie in genere, gli obiettivi di risparmiatori sempre
più anziani e anche, sotto la spinta di Internet, le modalità delle transazioni.
La quarta trasformazione riguarda l’ordine geopolitico del pianeta, alla luce della guerra
d’Ucraina, ma non solo. Questa guerra, infatti, non rappresenta altro che l’aspetto più
drammatico e più acuto del venir meno delle basi dell’ordine mondiale emerso con la fine
della Seconda Guerra Mondiale e con la Grande Recessione del 2008-2009. Più tensioni e
conflitti quindi, e meno commerci, quasi certamente minore sviluppo, con le relazioni
economiche che da globali paiono restringersi in ambiti più angusti, regionali nei migliori dei
casi e con crescenti tentazioni autarchiche. Sarà davvero così? Un fattore decisivo è legato al
rapporto sino-russo. Nel 1990, alla fine della Guerra Fredda, Mosca e Pechino generavano
rispettivamente il 3,4 e il 2 per cento del PIL mondiale; nel 2021 la loro quota sfiorava il 20
per cento, di cui il 18 per cento cinese. Se, per scelta ragionata o per costrizione prodotta dalle
sanzioni politico-economiche occidentali, la Russia approfondisse il «partenariato strategico»
con la Cina, finirebbe per diventare il «socio di minoranza» dell’alleanza. Ma il blocco dei
Paesi occidentali rischierebbe per contro di scendere sotto il 50 per cento del PIL mondiale.
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Tutte e quattro le crisi influenzano un’economia mondiale che sta perdendo rapidamente i
suoi caratteri di globalità e riducendo altrettanto rapidamente le proprie capacità di crescita,
tanto da indurci a intitolare questa ricerca Il mondo postglobale.
Le criticità politiche ed economico-industriali che stanno emergendo dal conflitto ucraino,
accanto alla ricomparsa di dinamiche inflattive, che le economie mature non sperimentavano
da decenni, non possono non influire – tra l’altro – sugli obiettivi fissati dalla Recovery and
Resilience Facility delineata dalla Commissione europea e di cui l’Italia è la principale
beneficiaria. Anche perché la nuova inflazione – un mix di problemi tecnici legati al sempre
peggiore funzionamento di molte catene globali del valore, da quelle alimentari fino ai
microchip – è profondamente diversa dai fenomeni inflazionistici del secolo scorso. Contro
di essa le “cure tradizionali”, di carattere fiscale e monetario, si sono rivelate poco efficaci.
L’Unione Europa, con la BCE, sta promuovendo contro la spinta inflattiva risposte di tipo
nuovo, piuttosto diverse rispetto a quelle della Fed americana. I “meccanismi” economici di
Bruxelles sono considerati normalmente lenti e complicati, tuttavia da un punto di vista
storico l’Europa mostra una crescita istituzionale assai rapida se paragonata a quella degli
Stati Uniti. Lo conferma il caso della BCE, la Banca Centrale Europea istituita nel 1998, cioè
quarant’anni dopo l’entrata in vigore del Trattato di Roma: la Fed, sua equivalente, vide la
luce a Washington alla fine del 1913, ossia ben 137 anni dopo la Dichiarazione di
Indipendenza del 1776 e senza contare che, nel caso europeo, non c’è stata alcuna guerra
civile di mezzo.
Gli avvenimenti recenti, però, hanno purtroppo messo a nudo la vulnerabilità energetica del
Vecchio Continente e, di concerto, la difficoltà a realizzare gli «obiettivi verdi», pur
culturalmente molto appetibili. E poiché il mondo non aspetta, l’Europa dovrà in tempi brevi
occuparsi a fianco di queste tematiche anche di coordinamento sanitario, di supporto alla
disoccupazione e ai giovani, di forze armate. E della revisione dei Trattati.
In tale quadro si inserisce un’analisi dettagliata dell’Italia; una economia che esprime ambiti
d’eccellenza ma resta gravata – ad esempio – dalla presenza di troppe micro-imprese, perché
i meccanismi regolatori le hanno incentivate a rimanere piccole: il 92 per cento dei dipendenti
privati è occupato in aziende con meno di 50 milioni di fatturato. E si avanzano diverse
proposte: una riforma fiscale che renda conveniente lavorare e investire, una revisione della
disciplina fiscale sulle fusioni che incoraggi le piccole imprese a crescere, l’introduzione del
quoziente famigliare nella tassazione diretta e l’introduzione sperimentale della settimana
lavorativa di quattro giorni, integrata da attività di formazione a distanza. L’export resta, per
l’Italia, un driver essenziale, ma il triangolo industriale ha incominciato a segnare il passo. Se
la dinamica delle esportazioni del Nord-Ovest industriale fosse stata la stessa della media di
Nord-Est e Italia centrale, l’impulso al PIL italiano sarebbe stato di 6 punti aggiuntivi per ogni
decennio; per conseguenza, la distanza media fra la dinamica del PIL europeo e quella del
PIL italiano sarebbe stata pari a meno della metà di quella che si è avuta nei fatti.
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Per l’Italia e per il resto del mondo, è legittimo domandarsi se ci troviamo di fronte a un
cambiamento senza precedenti oppure se qualcosa del genere possa essere già successo nella
storia. E per sbirciare il futuro studiando il passato, occorrono pensieri nuovi, nuove analisi e
sguardo lungo.
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Il Mondo Post Globale a cura di Mario Deaglio con i contributi di Giovanni B. Andornino,
Giorgio Arfaras, Angela De Martiis, Giuseppina De Santis, Gabriele Guggiola, Paolo
Migliavacca, Giuseppe Russo, Giorgio Vernoni
Guerini e Associati
Questo lavoro, frutto della collaborazione fra il Centro di Ricerca e Documentazione “Luigi
Einaudi” e Intesa Sanpaolo, prosegue l’esperienza venticinquennale del Rapporto
sull’economia globale e l’Italia.