Da Infolampo: Alternanza scuola lavoro – L’islamofobia colpisce le donne
Alternanza scuola-lavoro, un inizio difficile
Il monitoraggio della Cgil sul primo anno di attuazione. Uno su quattro fuori dai percorsi, l’80% delle
esperienze in parte in estate. Fracassi: “Costruire un’alleanza con le parti sociali”. Camusso: “Rispettare
i diritti, trasparenza e investimenti veri”
di Emanuele Di Nicola
L’alternanza scuola-lavoro ha avuto un inizio difficile: a un anno dalla partenza, con l’entrata in vigore
dell’obbligo e della Buona scuola, il quadro non è positivo. Un
ragazzo su quattro è fuori da percorsi di qualità: il 10% ha
partecipato solo ad attività propedeutiche, il 14% ad esperienze
di lavoro, in particolare negli istituti professionali. È quanto
emerge dal monitoraggio del primo anno di attuazione
dell’alternanza scuola lavoro, promosso da Cgil, Flc Cgil e
Rete degli Studenti Medi e realizzato dalla Fondazione Di
Vittorio, che è stato presentato oggi (18 ottobre) a Corso Italia
(qui la sintesi del monitoraggio). I dati sono stati rilevati in 87
Province di tutte le Regioni italiane e riguardano le esperienze
di alternanza dell’anno scolastico 2015/2016, dodici mesi dopo
l’avvio. Tanti gli elementi preoccupanti: l’80% delle esperienze
di lavoro sono state realizzate almeno in parte nel periodo
estivo, il 17% esclusivamente d’estate, evidenziando una
difficoltà a rispettare il monte ore minimo obbligatorio. Il 90%
dei giovani è ospitato in piccole o microimprese: il 50% fino a
9 dipendenti e il 40% sotto i 50 lavoratori. L’alternanza ha
ancora un carattere occasionale, manca un progetto
complessivo.
A illustrare i dati è stata Anna Teselli, la ricercatrice che ha
curato il monitoraggio. “Le scuole più in difficoltà sono
risultate quelle del Sud, meno abituate alle esperienze – ha
spiegato -. In generale c’è un’occasionalità diffusa, dove ci sono accordi questi sono limitati nel tempo”.
E proprio la natura occasionale è il vero nodo: “Finora c’è stata un’incapacità di fare percorsi stabili,
mettere a sistema l’alternanza. E’ uno dei maggiori ostacoli per ottenere percorsi di qualità. Oggi è
difficile garantire la qualità e certificarla: in una progettazione così occasionale le scuole hanno davvero
la possibilità di selezionare su criteri di qualità?”, si è chiesta. “Nella scelta delle aziende – poi – il
coinvolgimento delle parti sociali è totalmente assente – ha proseguito -. Senza accordi stabili, continuità
e una rete di territorio efficace l’alternanza non può funzionare, c’è un carico eccessivo per le scuole a cui
viene delegato tutto”. Le attività di lavoro realizzate durante la sospensione della didattica è “un altro
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L’islamofobia colpisce soprattutto le donne
L’islamofobia è una forma di discriminazione che colpisce le donne musulmane in modo sproporzionato
rispetto agli uomini. Il nuovo rapporto dell’Enar, il network europeo contro il razzismo
di Giulia Dessì
Le donne musulmane in Europa soffrono delle stesse diseguaglianze di cui soffrono tutte le donne nel
mondo del lavoro, e come oggetto di violenza fisica e verbale, ma ulteriori fattori, quali la percezione di
religione ed etnia, aggravano queste disparità. Con un tasso di ostilità verso i musulmani presenti nel
nostro paese pari al 69%[1] e con un indice di uguaglianza uomo-donna del 41.1%[2], l’Italia è un
contesto che non fa eccezione.
Il rapporto del network europeo contro il razzismo (Enar) “Donne dimenticate: l’impatto dell’islamofobia
sulle donne musulmane in Italia”[3], pubblicato a maggio 2016, ha esaminato sondaggi e studi esistenti e
sopperito alla quasi totale mancanza di questi con interviste e focus group.
Lavoro
Tra i paesi Ue con la più bassa parità di genere, l’Italia si classifica in modo insoddisfacente anche su
scala globale. Nel 2015, il Global Gender Gap Index[4] posizionò l’Italia al 45° posto su 145 paesi. A
frenare il paese sono soprattutto una bassa partecipazione lavorativa femminile e una robusta disparità
salariale. Queste condizioni peggiorano quando le donne hanno partner e figli. Le donne musulmane in
Italia subiscono, in quanto donne, questi stessi svantaggi. Al fattore, penalizzante, di genere vanno a
sommarsi però, i fattori di etnia, nazionalità, e religione – causando quindi una doppia o tripla
penalizzazione.
In mancanza di dati disaggregati per religione, etnia e genere, l’unico modo per cercare di capire come si
collocano le donne musulmane nel mercato del lavoro italiano è l’esamina dei dati relativi alle donne
straniere. Dati Istat relativi al 2014[5] mostrano che i dati più bassi sulla partecipazione al mercato del
lavoro si riscontrano tra le donne provenienti da paesi in cui la religione dominante è quella musulmana.
Le donne di cittadinanza pachistana in Italia registrano un tasso occupazionale del 2.2%, seguite dall’
8,9% delle egiziane, 10% delle bangladesi, il 16,4% delle tunisine e il 21,4% delle marocchine. Il tasso di
inattività (non occupati e che non cercano occupazione) segue un andamento simile. Le donne con
passaporto pachistano, egiziano e bangladese registrano anche le percentuali più basse nel settore
dell’imprenditorialità.[6] Per spiegare questi dati, che non includono le cittadine italiane di fede
musulmana, bisogna tenere in considerazione diversi fattori. La bassa partecipazione lavorativa è dovuta,
infatti, a un complesso insieme di svantaggi e discriminazioni multiple, con chiare differenze dovute a
percorsi di vita diversi.
Un’osservazione tratta da un rapporto dell’Istituto Ricerche Economiche e Sociali (IRES) sul progetto
Leader[7] offre una panoramica di questa complessità: “l’immigrato che avverte maggiormente il
contrasto tra le proprie competenze/capacità e il lavoro effettivamente svolto, è più frequentemente di
sesso femminile e proviene dal continente africano, soprattutto dai paesi del Mediterraneo, nella fascia
d’età d’ingresso nel mercato del lavoro, risiede in Italia da meno di cinque anni, ed è soggiornante
irregolarmente o con un permesso inferiore a un anno.”
In Italia, le donne musulmane di recente immigrazione condividono generalmente le stesse difficoltà di
tutti gli immigrati: una carente conoscenza della lingua italiana, il mancato riconoscimento di qualifiche
rilasciate da Paesi esteri, l’assenza di contatti e la scarsa familiarità con le istituzioni, ma soprattutto le
difficoltà di doversi inserire in un mercato del lavoro che relega i lavoratori stranieri nei gradini più bassi
della scala occupazionale, a prescindere da dai titoli di studio posseduti.
Tutto questo ovviamente non riguarda le decine di migliaia di donne musulmane nate e cresciuta in Italia.
In questo caso, la discriminazione vera e propria, dovuta al velo o a un nome di origine araba, ha un peso
maggiore. Si tratta di discriminazioni talvolta difficili da scoprire – perché il datore di lavoro le nasconde –
e, anche se manifeste – “ti assumo se ti togli il velo”-, sono difficili da dimostrare in tribunale a causa
della mancanza di prove scritte.
Il velo costituisce un serio ostacolo nella fase di accesso al lavoro, soprattutto se per una posizione
richiede contatto con il pubblico. Eppure, la “reazione negativa dei clienti” con la quale si giustificano
alcuni lavoratori di lavoro è talvolta una scusa. Rifiuti e richieste di togliere il velo si registrano anche per
lavori, quali lavapiatti o addetta pulizie, in cui il contatto con i clienti non è previsto.
La discriminazione, tuttavia, è raramente causata da un unico motivo. Nella maggior parte dei casi si
tratta di una discriminazione dovuta a una molteplicità di fattori quali genere, religione, etnia, classe
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