Nei sonetti del Belli il terremoto di 184 anni fa
Giuseppe Gioachino Belli e il terremoto del ‘32
La notizia ufficiale del terremoto che colpì l’Umbria nel
1832, arrivò con una lettera, ma Belli l’avvertì immediatamente
alle due pomeridiane del venerdì 13 gennaio, come scrisse nella
nota alla prima poesia, composta il 19 gennaio sei giorni dopo.
Certo che “Rimonno” di Foligno racconta il fatto con
dovizia di particolari, ma facendo una grande confusione con la
trave che cade dal primo piano e lo colpisce in testa e gli tronca
una mano mentre lui era a pranzo al secondo piano.
Il racconto del secondo testimone mette insieme il suono
del campanello, lo scricchiolio della credenza e il salto
spettacolare del gatto che raggiunge la lucerna appesa al
soffitto.
La donna che stava per andare in chiesa, corre a bussare
dalla sua vicina che, apre la porta frastornata e senza curarsi di
nascondere il sacerdote che giaceva con lei, perché tutti e tre si
mettono a pregare sotto il vano della porta, un posto sicuro!
Per poter fare il triduo di preghiere per scacciare il
terremoto, considerato castigo di Dio, vengono sospese le recite
nei teatri di Roma, come se il tremare delle seggiole fosse colpa
del burattino Pulcinella.
Il quinto e ultimo sonetto, composto il giorno dopo, cerca di
spiegare come avvengono i terremoti e dà la parola a Toto che
fa il cuoco e sa benissimo cosa avviene nella pentola quanto la
pressione del bollore scuote il coperchio.
Er terramoto de venardì
Rimonno ha scritto da Fuligno ar nonnoch’un trave che
cascò dar primo piano,mentre lui stava a pranzo in ner
ziconno,l’acchiappò in testa e je stroncò le mano.
E seguita la lettra de Rimonnoche nun c’;è barba-d’omo de
cristiano che s’aricordi da che monno è monno un antro
terramoto meno piano.
E dice ch’è un miracolo chi campi,perché la scossa venne a
l’improviso peggio de quer che viengheno li lampi.
E mó, pe nun fà er fine de li sorci,e nun annà, Dio guardi, in
paradiso,stanno tutti in campagna come porci.
19 gennaio 1832.
Er medemo II
Io stavo in piede avanti der cammino posanno la marmitta
sur fornello,quanto sento uno scrocchio ar tavolino,e dà du’ o
tre tocchctti er campanello!
M’arivorto, e te vedo er credenzino,tu tu tu tù, tremaje lo
sportello. Arzo l’occhi ar zolaro, e pare infinofà de questo la
gabbia de l’ucello.
Tratanto er gatto, fsc, zompa tant’arto,er campanello
ricomincia er zono,e una lucerna me va giú de quarto.
Io mó dunque te dico, e nun cojono,che sti tocchi, sto
trittico e sto sartovonno dí terremoto bell’e bono.
19 gennaio 1832.
Er medemo III
E io? pe scegne in chiesa, propio allora m’ero appuntata in
testa la bautta,quanno che me sentii cunnolà tutta,e come una
smanietta de dà fora.
Nun te so dì come arimasi brutta: so che curzi a bussà a la
doratora Sora Lionora mia, sora Líonora, uprite, oh Dio, che la
lucerna butta;
Tra tutto ce poté curre er divario d’un par de crèdi, ch’uscí
mezza mortada la stanzia der letto cor vicario.
E lí un zuttumpresidio; e a falla cortasu du’ piedi
intonassimo er rosario tutt’e tre sott’er vano de la porta.
19gennaio 1832.
Er medemo IV
Ch’ha che fà er terramoto de Fulignoco la commedia der
Teatro Pace?!
C’entra come ch’er fischio e la barnmace,come la fregna e ‘r
domminumzuddigno.
E qui ha raggione lui mastro Grespigno,quer ch’abbotta li
fiaschi a la fornace, ch’er terramoto è un spirito maligno che
tanto fa quer che je pare e piace.
Nun ze pò pregà Iddio matin e giorno e annassene la sera a
la commedia? Questo che guasta ar terramoto, un corno?
Bella raggion der cazzo! propio bella!Perché ar Papa je
tríttica la sedia se mette la mordacchia a Purcinella!
19 gennaio 1832.
Er teremoto
Che cos’è er teremoto de la terrame l’ha spiegato tutto-
quanto Toto. Dice che giú giú giú c’è un bucio vòto dove ce
scola l’acqua e ce se serra.
E che quanno er zor diavolo fa voto a cas’e chiese
d’intimaje guerra,va lí cor una fiaccola e ce sferra sto sartarello
qui der teremoto.
La fiaccola de pece e de caperchio manna l’acqua in bullore
e l’arza in fume,e er fume che vò uscí smove er cuperchio.
Toto, che sa ste cose perch’è coco,dice, si tira l’acqua e
accenne er lume: acqu’e foco, er Zignore je dia loco.
20 gennaio 1832.