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Infolampo: Rebus – Welfare

Rebus italiano
Bocciata una stagione di politiche che hanno aggravato la crisi anziché risolverla, cercando benedizioni
in alto e dimenticando le sofferenze in basso. Il sindacato e i bisogni di larghi strati popolari piegati da
anni di tagli, precarietà e nuove povertà
di Altero Frigerio
Una cesura netta con il passato, quello di ieri ma anche quello dell’altroieri. Una cesura netta con i
governi tecnici, le maggioranze posticce, gli inciuci e le larghe intese. Un basta all’usato sicuro e alle
ricette buone per tutte le stagioni.
Vale la pena riprendere un ragionamento svolto qualche settimana
orsono dagli economisti ed esperti di Sbilanciamoci che in maniere
non retorica, dati alla mano, si chiedevano e chiedevano alla
politica se gli italiani stessero meglio e peggio di cinque anni fa, se
insomma l’ultima legislatura avesse più luci od ombre. Gli elettori
hanno confermato la sintesi di Sbilanciamoci: se è cresciuta la
povertà, se non c’è mai stata tanta precarietà, se i redditi sono fermi
e i posti di lavoro sempre più in bilico, se mai così tanti cittadini
hanno rinunciato alle cure, se abbiamo il record di giovani fuggiti
all’estero, ecc. ecc., come si fa a dire che abbiamo risolto i
problemi del Paese, che bisogna continuare sulla strada delle
riforme (e tutti ad associare questo termine con il volto della
Fornero e al suo intervento sulla previdenza), che insomma dopo
gli anni dei sacrifici arriveranno i giorni delle vacche grasse.
Semplicemente gli italiani pensano in maggioranza di averne avuto
abbastanza, sfogando nelle urne il rancore e la collera, il disagio
sociale e la frustrazione personale, la fine delle speranze collettive
di migliorare le condizioni materiali di tutti. Chi più ha fiutato
questo stato d’animo collettivo, più è stato premiato in termini di
consenso elettorale. A fronte di chi, in 36 mesi, è riuscito a passare
dal massimo del sostegno popolare al minimo della propria rappresentanza parlamentare, pagando il
prezzo di errori di sostanza (politiche per scuola, lavoro, giovani) e di immagine (compresa la
fallimentare gestione della vicenda delle crisi bancarie).
E’ presto per capire l’evoluzione sia politica che parlamentare, e prima di parlare di maggioranze e
governi vale la pena attendere la proclamazione degli eletti e i successivi passaggi istituzionali. Possiamo
tuttavia spendere due parole su come leggere dal nostro punto di vista quanto sta accadendo intorno a noi.
Intanto diciamo che abbiamo alle spalle campagna elettorale desolante, che potremmo dividere per
comodità in tre fasi: prima siamo stati inondati di programmi da Guinness dei primati in quanto a
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Il futuro del welfare e la difficile sfida delle riforme
Ci sono almeno due ragioni oggettive per spiegare il malcontento nei confronti del modello corporativo
dello Stato sociale italiano: la prima è la demografia, la seconda il mutamento del ruolo delle donne
come soggetto auto-produttore di alcuni servizi
di Gilberto Turati, Rps
Il testo che segue è la sintesi dell’articolo pubblicato nella sezione Attualità del n. 3-2017 della Rivista
delle Politiche Sociali. Gli abbonati possono leggerlo qui in versione integrale. Questo è invece il link alla
rubrica che Rassegna dedica alla stessa Rivista
La ricetta di politica economica adottata dagli ultimi governi si è orientata negli anni della crisi a una
riduzione del peso del settore pubblico sul Pil per dare una spinta alla crescita. Questo orientamento della
politica di bilancio, che mira a ridurre le imposte e la spesa, si allinea con le sole proposte organiche di
riforma del settore pubblico finora avanzate da think-tank indipendenti, che hanno come obiettivo quello
di stimolare la riflessione su come riformare le politiche fiscali e sociali del Paese.
Il punto di partenza per questa riflessione è vedere quali opzioni abbiamo a disposizione: si identificano
sostanzialmente tre modelli alternativi (socialdemocratico, liberale e corporativo) per l’organizzazione del
welfare state nei paesi capitalistici, che si differenziano chiaramente rispetto alla spesa che implicitamente
si genera e alle coperture garantite da ciascuno. Il modello socialdemocratico è quello che offre maggiori
protezioni e implica una maggiore spesa e un maggior coinvolgimento dello Stato. Al contrario, il
modello liberale è quello che offre le minori protezioni e che spinge verso il mercato per soddisfare la
domanda di protezione sociale. In una sorta di posizione intermedia, per volume di spesa e di tassazione,
si colloca infine il modello corporativo, che guarda ai lavoratori divisi in corporazioni come soggetti da
tutelare.
L’Italia ha chiaramente adottato un modello corporativo; e la frammentazione dei programmi di spesa è
uno dei grandi problemi nel processo di modernizzazione del welfare italiano, perché l’abbandono della
categorialità comporta la riduzione di privilegi per alcuni a vantaggio almeno del mantenimento delle
tutele per altri.
Ci sono almeno due ragioni oggettive per spiegare il malcontento nei confronti dell’attuale modello
corporativo dello Stato sociale italiano: la prima ragione è la demografia, la seconda il mutamento del
ruolo delle donne e della famiglia come soggetto auto-produttore di alcuni servizi di welfare. Entrambe le
ragioni chiedono un mutamento della domanda di coperture, pensate per una struttura sociale che oggi
non c’è più.
A partire da queste ragioni oggettive, la domanda di riforme viene alimentata dalla diffusione anche in
Europa della retorica della “responsabilità individuale”, l’idea cioè che lo Stato debba intervenire ad
aiutare gli individui solo quando le circostanze che li hanno colpiti sono davvero al di fuori del loro
controllo. Una retorica sostenuta anche dall’esperienza di continui episodi di assistenzialismo che
vengono raccontati dalla stampa e dall’incapacità (quando non dalla mancanza di volontà) di porvi
rimedio. La retorica dell’impegno, per un economista, identifica immediatamente un problema di
“comportamento opportunistico”, il problema che si è cercato di affrontare con le recenti riforme in giro
per l’Europa dell’intervento assicurativo pubblico sul mercato del lavoro rivedendo in senso restrittivo le
coperture.
Ma nell’ambito dello Stato sociale questo problema si mischia con la “selezione avversa”, davvero un
problema di (s)fortuna e non di impegno, che mette in luce la natura redistributiva dell’intervento
pubblico, dai più fortunati ai meno fortunati. Lo Stato sociale moderno deve fare redistribuzione e non
limitarsi ad assicurare, visto anche l’aumento delle diseguaglianze che abbiamo osservato con la crisi
economica; ma deve farlo in modo efficiente.
C’è infine un ulteriore elemento che complica la capacità di riformare in Italia: la situazione della finanza
pubblica. Per tutti gli anni ottanta si sono gestiti i conflitti sociali con il debito, andando avanti a registrare
enormi disavanzi di più di 10 punti di Pil per un intero decennio. Questa strategia esplode nel 1992,
quando il paese sottoscrive il Trattato di Maastricht e le regole europee mettono a nudo tutti i limiti di un
modello solo italiano e acuiscono la conflittualità tra due aree del Paese che hanno attese diverse in
termini di riforma e fanno diagnosi diverse dei problemi: la retorica dei territori settentrionali è tutta
legata alla spesa inefficiente del Sud finanziata con i soldi del Nord; la retorica di quelli meridionali è
invece legata all’evasione fiscale e alle ricchezze nascoste.
Queste due visioni sono inconciliabili tra di loro: guardano allo stesso problema, ma da versanti opposti e
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