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Infolampo: Donne – Rifugiati

Donne, i sistemi di welfare non sono neutrali
Il livello e tipo di offerta di servizi, i trasferimenti alle famiglie, le politiche per la casa, oltre che le
pensioni o le indennità di disoccupazione, a uno sguardo di genere rivelano gli assunti dati per scontati
rispetto alla divisione del lavoro
di Chiara Saraceno
Il testo è la sintesi dell’articolo pubblicato nella sezione Tema del n. 1 2018 della Rivista delle Politiche Sociali. Gli abbonati possono leggerlo qui in versione
integrale. Questo è invece il link alla rubrica che Rassegna dedica alla stessa Rivista
Le analisi di genere hanno evidenziato come i sistemi di welfare non siano neutri, né neutrali, rispetto ai
modelli di organizzazione famigliare e di rapporti di potere
tra uomini e donne, dentro e fuori la famiglia, che
sostengono e talvolta promuovono. Si può, anzi, sostenere
che le forme di regolazione dei rapporti di genere (gender
arrangements) sono una dimensione specifica dei sistemi di
welfare, a sua volta sostenuta da modelli culturali circa ciò
che è appropriato in base al genere (Pfau-Effinger, 2004).
Il livello e tipo di offerta di servizi, i trasferimenti alle
famiglie, i sistemi fiscali, le politiche per la casa, oltre che le
pensioni o le indennità di disoccupazione, così come le
forme di regolazione del mercato del lavoro e dell’orario di
lavoro, a uno sguardo di genere escono da una loro presunta
neutralità e rivelano gli assunti dati per scontati rispetto alla
divisione del lavoro tra uomini e donne. Senza contare il
lavoro familiare e di cura non pagato come lavoro necessario, che non solo va meglio redistribuito tra
uomini e donne e tra famiglia e società, ma che va anche riconosciuto nel suo valore e per il quale occorre
garantire tempo, alle donne e agli uomini.
Una visione della (dis)uguaglianza di genere basata non solo sulla partecipazione al lavoro remunerato,
ma anche al lavoro di cura, complica la dicotomia familizzazione-defamilizzazione e il modo in cui si
possono valutare le politiche in questo campo. In primo luogo, anche nei contesti più – o viceversa meno
– defamilizzati la cura, salvo eccezioni considerate per lo più patologiche o estreme, è sempre prestata da
un mix di persone e istituzioni, in parte a pagamento in parte no. In secondo luogo, accanto alla
defamilizzazione e politiche pubbliche possono (nella forma dei congedi) non solo garantire “tempo per
la cura”, ma, se esplicitamente disegnate a questo scopo anche favorire un riequilibrio di genere nelle
responsabilità di cura (Saraceno e Keck, 2013).
Le analisi delle studiose femministe hanno trovato un terreno di ascolto favorevole tra coloro che a livello
internazionale si interrogano sui cosiddetti nuovi rischi sociali, scaturenti dalla combinazione
invecchiamento della popolazione, indebolimento delle due istituzioni che tradizionalmente avevano
costituito le basi del welfare tradizionale – l’istituzione del matrimonio come legame per tutta la vita e il
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Marche: si conferma il
divario con le altre regioni

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Quando i rifugiati sono gli europei
Ogni anno, quasi 100mila europei fanno domanda d’asilo nei paesi UE, e il numero di richieste accolte
tende ad aumentare. Eppure questo fenomeno rimane ai margini del dibattito sul diritto d’asilo – e di
quello sull’allargamento
di Lorenzo Ferrari
Tutte le discussioni che si sono scatenate in Europa sul diritto d’asilo negli ultimi anni – e il razzismo che
le accompagna – si basano sull’idea che i richiedenti asilo siano quelli che arrivano attraverso il
Mediterraneo o la Turchia, provenienti dall’Africa e dall’Asia. In realtà lo scorso anno tra coloro che
hanno fatto domanda d’asilo nei paesi dell’Unione europea c’erano quasi 100mila cittadini europei:
albanesi, turchi, russi, georgiani, ucraini, armeni e così via.
Questa massa di persone tende a sfuggire all’attenzione dell’opinione pubblica e delle forze politiche,
forse perché tra loro ci sono moltissimi minorenni, con cui è più difficile prendersela, ma probabilmente
perché questi richiedenti asilo hanno la pelle bianca. Vengono percepiti come meno minacciosi rispetto
alle presunte orde di giovani uomini dell’Africa subsahariana che avrebbero invaso le nostre città – e
dunque si prestano meno a essere additati e strumentalizzati in chiave xenofoba.
La Francia ha rappresentato una delle poche eccezioni a questo generale atteggiamento di disattenzione,
perché lo scorso anno gli albanesi sono risultati in assoluto la più corposa comunità di richiedenti asilo
nel paese, e la stampa e la politica hanno dovuto accorgersene. Gli albanesi in effetti hanno un peso
notevole nel complesso delle domande di asilo presentate da europei in Europa: nel 2017 sono stati in più
di 22.000 a chiedere asilo – di gran lunga il numero più alto rispetto a tutte le altre nazionalità, sia in
termini assoluti, sia in proporzione alla popolazione (quasi l’1% dei cittadini albanesi lo scorso anno ha
chiesto asilo nell’Unione europea).
Diffidenza e scoraggiamento
La grande maggioranza degli europei che fanno domanda d’asilo nell’Unione europea si rivolge alla
Germania o alla Francia. Negli ultimi anni entrambi i paesi hanno però adottato una politica sempre più
rigida nei loro confronti, in conseguenza del picco di domande ricevute anche da parte degli europei nel
2015. E dunque inserimento dei paesi di provenienza nell’elenco dei “paesi sicuri”, procedure rapide di
valutazione delle domande e percentuali molto basse di accoglimento, rimpatri forzati, accordi coi
governi dei paesi d’origine per limitare i flussi in uscita e minacce di reintrodurre i visti per l’area
Schengen.
“In Francia le autorità ormai partono dal presupposto che domande come quelle presentate dagli albanesi
siano infondate, e dunque a questi richiedenti asilo non viene nemmeno offerto un alloggio. L’idea di
fondo è che non si debba essere troppo gentili con loro”, sostiene Oliver Peyroux, che studia
l’immigrazione europea in Francia. “Manca del tutto una riflessione sulle cause che spingono queste
persone a partire, e su cosa si potrebbe fare per aiutarli. Ma molto spesso manca anche una conoscenza di
base, per moltissimi francesi ad esempio gli albanesi rimangono piuttosto misteriosi”.
È vero che, anche prima della recente stretta, i paesi dell’UE respingevano la maggioranza delle domande
di asilo presentate da cittadini europei, ed è vero che in molti casi a chiedere l’asilo non sono persone
esposte a pericoli e minacce specifiche, bensì migranti economici con poche altre opzioni a disposizione
per riuscire a trasferirsi all’estero. Come conferma la giornalista albanese Fatjona Mejdini, tra i suoi
connazionali che partono molti sono giovani e famiglie che non riescono a trovare lavoro nel loro paese.
Sempre più domande accolte, nonostante tutto
Anche se le autorità tendono a considerare strumentali le domande d’asilo presentate dagli europei, i
numeri raccontano una storia un po’ diversa. Nel 2017 i paesi dell’Unione europea hanno accolto circa il
18% di queste domande, mentre cinque anni prima avevano deciso di concedere l’asilo solo all’8% di
coloro che avevano fatto richiesta. Il minore tasso di rigetto delle domande d’asilo non è certo da
attribuirsi a una maggiore generosità dei governi, quanto a un riconoscimento dell’oggettiva precarietà
delle condizioni di vita in vari paesi europei. A trovare più spesso un esito positivo non sono solo le
richieste di asilo di turchi e ucraini – esposti evidentemente a gravi rischi – ma anche quelle presentate da
quasi tutte le altre nazionalità.
Ad esempio, anno dopo anno i richiedenti asilo albanesi vedono accolte sempre più domande: all’interno
dell’UE nel suo complesso, le concessioni di asilo per loro sono passate da 500 a 1600 in cinque anni. Le
motivazioni alla base dell’accoglimento delle richieste di asilo sono perlopiù legate ai pericoli costituiti
dalla vendetta di sangue, alla violenza domestica, alle discriminazioni contro le persone LGBT e la
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