Infolampo: Legge 180 Nadef
Legge 180 presidio di civiltà, ma va rilanciata
Serve una riqualificazione dei servizi per affermare nel concreto i princìpi e gli obiettivi della riforma
Basaglia, formidabile motore di trasformazione delle istituzioni
di Stefano Cecconi e Rossana Dettori
Il 10 ottobre è la giornata mondiale della salute mentale che l’Organizzazione mondiale della sanità ha
dedicato quest’anno ai giovani e a quelle condizioni di vita che possono produrre disagio mentale: dallo
stress vissuto in aree colpite da emergenze umanitarie, fino
all’utilizzo improprio delle tecnologie online.
In Italia, quarant’anni fa, la legge 180 cancellò i manicomi,
in nome della dignità e dei diritti di ogni persona. Sappiamo
che approvare e far vivere la legge 180 non è stato facile. Ci
sono voluti anni per abolire il manicomio – “istituzione
totale, distruttiva e irriformabile”, secondo Franco Basaglia
– e altri vent’anni anni per chiuderli davvero grazie al
decreto Bindi del 1999.
Tutto era iniziato con la nomina di Basaglia a direttore di
manicomio, prima a Gorizia nel 1961 e poi a Trieste nel
1971. In tante parti d’Italia, negli stessi anni, fiorivano
esperienze simili (a Parma, Arezzo, Ferrara, Nocera
Inferiore, Perugia, eccetera) e intanto, nel 1968, veniva
approvata la legge 431 che interveniva sugli aspetti più
degradanti delle norme che regolavano l’esistenza dei
manicomi. Ma fu la legge 180 del 1978 a sancire la svolta
radicale. Con la liberazione – seppur lenta, faticosa, graduale
– di migliaia di uomini e di donne internati in manicomio sono stati restituiti dignità, diritti e quindi
cittadinanza alle persone con disturbi mentali. E da quel momento nessuno è stato più relegato in un
manicomio. La stessa recente chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari è stata possibile grazie alla
legge 180.
Tante volte abbiamo detto che non è stata una conquista isolata, ma maturata al culmine di un periodo di
lotte sociali e sindacali. Non è un caso che nello stesso anno, il 1978 (l’anno terribile dell’assassinio di
Aldo Moro da parte del terrorismo brigatista), vennero approvate tre grandi riforme del welfare italiano:
la legge 180 appunto, la legge 194 e, infine, e la legge 833 di riforma sanitaria.
In questi anni, la legge 180 è stata ostacolata e solo parzialmente attuata. Basti pensare alle tante strutture
residenziali diventati cronicari, luoghi di custodia invece che di cura e riabilitazione. Oppure, come
denuncia la campagna “E tu slegalo subito”, si pensi alla pratica diffusa della contenzione meccanica (e a
quella nuova dei farmaci). E, ancora, alla carenza di risorse e di personale che ha indebolito i servizi nel
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Il Nobel riapre la questione
del clima: il nostro
disinteresse ci costerà caro
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Lo scarto tra il Nadef e la realtà economica
Mentre ci sono le prime avvisaglie di un rallentamento economico, secondo il governo in soli 6-7 mesi il
Paese dovrebbe crescere di 0,6 punti di PIL in più rispetto al quadro tendenziale. E c’è anche il dubbio
che le ingenti risorse impegnate eccedano l’effettiva capacità di spesa della pubblica amministrazione.
di Roberto Romano
Premessa: politica economica cercasi
La Nota di Aggiornamento del Documento di Economia e Finanza (NADEF) del 27 settembre 2018
consegna al Paese le opzioni di politica economica che la compagine governativa intende sostenere. Si
esce dalla discussione precaria fatta di promesse, auspici e suggestioni. In altri termini, il NADEF delinea
le vere intenzioni del governo.
Lo scenario economico base è cambiato radicalmente rispetto all’inizio dell’anno quando era stato scritto
il DEF del governo Gentiloni. Le prospettive di crescita, dei tassi di interesse e l’inasprimento dei dazi,
unitamente al rischio di una bolla finanziaria che in molti tentano di scaricare sui Paesi emergenti,
condizionano le scelte di politica economica degli Stati.
In Europa la discussione è, se possibile, ancora più complicata. Da un lato ci sono i rigidi vincoli del
pareggio di bilancio strutturale e del debito pubblico, dall’altro ci sono le prime avvisaglie di un
rallentamento economico che compromette i conti pubblici: meno entrate fiscali, saldi pubblici in crescita
in rapporto al PIL – se cala il denominatore tutti gli indicatori di finanza pubblica peggiorano -, crescita
della spesa in ragione dei così detti stabilizzatori automatici.
Più precisamente, i saldi di finanza pubblica di aprile non hanno nessun fondamento e sono
tendenzialmente peggiorati non per un eccesso di spesa discrezionale, piuttosto per un ciclo economico
negativo che potrebbe anche peggiorare se fossero adottate misure pro cicliche. Le prospettive
economiche sono, quindi, fragili soprattutto per i Paesi europei che hanno sperimentato la così detta
austerità espansiva che ha ridotto il potenziale di crescita e di occupazione come e quanto una guerra; la
crisi del 2007 è stata più lunga e profonda di quella del ’29, almeno per l’Italia.
L’Europa diventa un terreno di riflessione importante[1], ma la minore o maggiore disponibilità di risorse
finanziarie, il così detto deficit al 2,4% del PIL[2], non è il “problema”[3], sebbene non sia banale,
piuttosto è la politica economica sottesa che dobbiamo discutere[4]. Infatti, il Paese ha problemi di
struttura che da lustri attendono una soluzione[5]: la minore crescita del PIL rispetto alla media europea
che nel tempo si è ampliata, il moltiplicatore più contenuto degli investimenti privati e pubblici, una
produzione industriale ancora lontana dal 2007 che fa il paio con la de-specializzazione produttiva
rispetto all’Europa, un tasso di povertà non solo in crescita, ma anche di difficile soluzione data la
struttura reddituale e la fiscalità nazionale, un reddito da lavoro più basso di almeno 10.000 euro rispetto
alla media tedesca, sebbene in molti continuano a credere che il sistema manifatturiero italiano sia simile
a quello teutonico, una spesa in ricerca e sviluppo più bassa – ma coerente con la nostra economia-
rispetto ai concorrenti europei. Sono solo alcuni dei nodi di struttura che il Paese deve affrontare e,
soprattutto, non possono essere risolti con delle misure fiscali a buon mercato.
Rimane il tema della politica economica: il deficit è utile nella misura in cui è coerente con una politica
economica che governa i processi di trasformazione del capitale e riequilibra le coppie capitale-lavoro,
capitale-Stato e lavoro-Stato; diversamente sarebbe solo un’ulteriore declinazione delle politiche liberiste,
condite con un po’ di apparente umanità.
L’obiettivo del governo di dimezzare il gap di crescita dell’Italia rispetto alla media dei Paesi UE, ormai
prossima a 1 punto percentuale di PIL, è ambizioso e condivisibile. È la prima volta che le istituzioni
nazionali si interrogano sul punto, sebbene la minore crescita tra il 1995 e il 2018 sia stata più bassa di
ben 22 punti percentuali. Il deficit può essere una occasione di sviluppo, ma l’allocazione delle risorse
influisce sui margini di crescita. La spesa corrente certamente concorre alla dinamica dei consumi, ma
quella in conto capitale avrebbe contribuito in modo più significativo, se fosse tesa a chiudere la forbice
tra la domanda di investimenti e la produzione di beni strumentali. Si ripropone il tema del che cosa e del
come produrre, così come quello del governo di capitale e lavoro in una logica di sistema.
La NADEF pur riconoscendo i vincoli di struttura dell’economia nazionale, come quello del ricambio
generazionale dei lavoratori, sottovaluta proprio la struttura della domanda di lavoro che rimane
incoerente rispetto alla formazione maturata dai giovani nel nostro sistema scolastico. Diversamente
sarebbe inspiegabile la crescita dell’emigrazione italiana dei giovani – siamo ormai all’ottavo posto della
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