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Da Infolampo: Cona – Conciliazione

profughi cona conetta-2-2Cona: quella non è accoglienza

La morte di Sandrine Bakayoto dimostra l’impossibilità di fornire assistenza e garantire dignità nei

grandi centri adibiti ad ospitare i migranti. Bisogna sviluppare la rete Sprar e utilizzare personale

qualificato. Urgente un albo degli operatori

di Francesca Chiavacci, presidente Arci

Sandrine Bakayoko, aveva solo 25 anni ed era arrivata in Italia da appena 4 mesi. Dopo essere

sopravvissuta alla traversata del mare e del deserto, partita

dalla Costa d’Avorio, ha trovato la morte in un centro di

accoglienza della provincia di Venezia. Sentitasi male alle

7 di mattina sotto la doccia, i soccorsi sono arrivati solo

alle 15.00 e non è stato più possibile salvarla.

Il centro di Cona, ex base missilistica della provincia

veneta dove Sandrine ha perso la vita, è uno di quei centri

collettivi, dove vivono un migliaio di immigrati. Uno dei

troppi centri nei quali, dati i numeri, è impossibile fornire

adeguata accoglienza e dignità.

L’Arci denuncia da anni la politica dell’accoglienza in

grandi centri che sono come il caso dei Cara dimostra

luoghi ad impatto negativo sul territorio, che alimentano il

razzismo e dove i diritti dei migranti non vengono

rispettati. Un’accoglienza giusta è possibile solo nei centri

piccoli, a misura di persona, dove favorendo l’autonomia e

la responsabilità degli ospiti fin dall’arrivo, si possono sviluppare dei reali progetti d’integrazione e di

relazione positiva con il territorio. Al contrario, nei centri con grandi capacità d’accoglienza le persone

diventano numeri, i problemi si moltiplicano senza che possa essere trovata una risposta adeguata per

l’impossibilità di fornire una reale assistenza.

Affinché altre tragedie di questo tipo non si riproducano la sola soluzione è la chiusura immediata di

questi centri e che il sistema di accoglienza straordinaria delle prefetture sia trasferito nella rete Sprar.

Serve inoltre un registro nazionale dei soggetti che fanno accoglienza e tutela in maniera competente e

monitorata.

Bisogna uscire dall’emergenza evitando di alimentare rappresentazioni distorte degli stranieri come è

stato fatto focalizzandosi sulla rivolta che è seguita al decesso di Sandrine, frutto dell’esasperazione dei

suoi compagni abbandonati a loro stessi nell’ex base missilistica che rischiano di essere strumentalizzati

dai predicatori d’odio.

Leggi tutto: http://www.radioarticolo1.it/articoli/2017/01/04/7942/cona-quella-non-e-accoglienza

Condomini, servizi e orti in

comune: il welfare di comunità

in otto documentari

Leggi su www.libereta.it

www.ingenere.it

Conciliazione. Meno fondi più sperimentazione

Favorire la conciliazione tra tempi di vita e di lavoro. Cosa hanno fatto le regioni negli ultimi sei anni

di Erica Aloè

Lo scorso 14 dicembre il Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri

ha presentato a Roma il rapporto relativo all’attività di monitoraggio dei risultati delle due intese – 2010 e

2012 – tra stato e regioni sulla ripartizione delle risorse del sistema di interventi volti a favorire la

conciliazione dei tempi di vita e di lavoro. Al centro delle intese gli obiettivi generali erano quelli di

rafforzare la disponibilità dei servizi e degli interventi di cura alla persona e di potenziare i supporti

finalizzati a consentire alle donne la permanenza, o il rientro, nel mercato del lavoro.

Alla presenza della coordinatrice dell’ufficio per gli interventi in materia di parità e di pari opportunità, la

dirigente generale Monica Parella, il team che ha condotto l’analisi ha messo in luce come nel corso degli

ultimi sei anni le aree di intervento che tradizionalmente erano state oggetto delle azioni di conciliazione,

ovvero quella dei servizi e quella del supporto alla maternità, hanno ceduto spazio e attenzione alle aree

della flessibilità organizzativa e degli interventi sperimentali. Tale cambiamento, che ha riguardato

l’intero territorio, è stato incentrato sul passaggio da un piano di interventi connotati da un maggiore peso

economico e focalizzati sulla realizzazione di progetti di conciliazione più classici – quali percorsi

formativi per le lavoratrici al rientro dal congedo di maternità, aumento del numero dei nidi per l’infanzia,

buoni acquisto e altri incentivi – a un reindirizzamento degli interventi attraverso la promozione di una

cultura della flessibilità in azienda e con azioni di welfare aziendale. In questa seconda fase, i servizi già

in uso sono stati modificati al fine di essere adattati maggiormente alle esigenze individuali, per esempio

in termini di orari e distribuzione.

Dietro a tale cambiamento sono state individuate due cause principali. Una prima di natura economica.

Infatti, mentre la prima intesa, stipulata nel 2010, poteva contare su un budget complessivo di circa 40

milioni di euro, redistribuiti tra le regioni, la seconda, quella del 2012, ha visto una drastica riduzione del

budget, che è sceso a circa 15 milioni di euro. Ma la motivazione economica, il cui peso sulle decisioni

prese a livello locale non è sicuramente trascurabile, è stata affiancata da un altrettanto importante

cambiamento di prospettiva riguardante il welfare. Si punta, quindi, su un welfare secondario, con il quale

l’attenzione si sposta verso i luoghi di lavoro, non visti soltanto come luoghi della responsabilità sociale

ma anche come luoghi che, se meglio organizzati e gestiti con maggiore razionalità, efficacia ed

efficienza, possano intercettare i bisogni delle persone, fornire risposte efficaci, produrre benessere e al

contempo migliorare in produttività e competitività.

Se, da un lato, le imprese, non solo quelle grandi, ma anche quelle medio-piccole, vengono a giocare un

nuovo ruolo e si riesce finalmente a ottenere una visione complessiva dei processi, d’altra parte, il rischio

è quello di perdere di vista il soggetto destinatario finale, cioè le donne e, in generale, le lavoratrici e i

lavoratori. Inoltre, nella gran parte dei casi, il welfare gestito dalle aziende può sfociare in un approccio

parziale, che si rivolge esclusivamente alle madri, trascurando il ruolo dei padri e, quindi, mancando il

fondamentale obiettivo del raggiungimento delle pari opportunità.

Anche la gestione delle risorse a livello di governance regionale può avere implicazioni importanti sul

conseguimento dei risultati. È stato infatti evidenziato dalla ricerca, che in alcune regioni gli interventi e i

fondi ad essi destinati sono stati amministrati dalla direzione sociale, mentre in altre da quella economica.

Da tale decisione di governance possono scaturire considerazioni il cui impatto non è trascurabile. La

conciliazione vita-lavoro è una questione sociale o un’opportunità economica? E quanto incide

sull’efficacia e sull’impatto della conciliazione l’area decisionale coinvolta?

Infine, gli strumenti di promozione sono stati fondamentali per la diffusione e la sensibilizzazione sui

territori regionali delle tematiche connesse alla conciliazione. Solo laddove c’è stato un serio lavoro di

promozione degli interventi, i progetti hanno riscosso il successo che ci si aspettava anche in termini di

cofinanziamento. La promozione e la comunicazione degli interventi è stata, infatti, molto diversa a

livello regionale. Solo le regioni che hanno informato e formato le imprese, le organizzazioni sindacali e i

cittadini stessi sono riuscite a farsi promotrici di un sistema socio-economico basato sulla co-
responsabilizzazione di tutti gli attori.

In sostanza, i risultati più importanti sono sono stati raggiunti nelle Regioni che hanno ricevuto più

risorse, ma anche che avevano già alle spalle una rilevante esperienza nell’ambito della realizzazione e

promozione dei progetti di conciliazione. In tema di buone pratiche sono stati presentati gli interventi

realizzati in Piemonte e in Lombardia. In Piemonte il tema della conciliazione non era nuovo. Già dal

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